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Alessio Zuccari
A Real Pain: recensione del film di Jesse Eisenberg
Tags: a real pain, Jesse Eisenberg, Kieran Culkin
Lo stesso Eisenberg e Kieran Culkin sono protagonisti di un’opera che ripecorre la memoria storica di due cugini ebrei mentre affrontano le loro incomprensioni personali.
Film tutto di attori, anzi di un attore in particolare, Kieran Culkin, A Real Pain è la seconda opera scritta e diretta da un altro attore, pure co-protagonista, Jesse Eisenberg. Molto apprezzato sin dal suo passaggio in anteprima al Sundance Film Festival 2024, dove ha vinto il premio alla miglior sceneggiatura, costato una manciata di milioni di dollari, circa 3, e con già un buon incasso al botteghino internazionale, una ventina, è insomma il piccolo caso di una stagione cinematografica che lo ha pure incensato di diversi premi e portato a contendere agli Oscar.
Quella di Eisenberg, che torna a tenere le redini di un’opera dopo l’esordio con Quando avrai finito di salvare il mondo nel 2022, è una pellicola tra l’intimista e l’impegnato, tra la ricerca della cornice lirica (l’accompagnamento musicale è quasi interamente un piano sulle note di Chopin) e l’impasto degli affanni umani. Oscilla allora tra il buddy e il road movie, con due cugini che non sanno troppo bene come parlarsi e che insieme decidono di intraprendere un viaggio sulle orme del passato.
David (Eisenberg) e Benji (Culkin) salgono su un aereo e volano infatti fino in Polonia. Sono ebrei, hanno perso recentemente la nonna che era emigrata negli Stati Uniti dopo essere stata nei campi di concentramento, e a cui Benji era legatissimo, e hanno deciso di partecipare ad un “heritage tour”, cioè un tour sulla conservazione della memoria di un popolo, che è anche un “tour sul dolore” e sulla resilienza. Vi partecipano un gruppetto di altri ebrei di diversa estrazione culturale e sociale, ebrei di nascita e di acquisizione, credenti o meno credenti.
David e Benji sono separati da un dislivello comunicativo. Il primo è timido e un po’ noiosetto, ha una moglie e un figlio, un lavoro stabile e una vita incasellata nella parte buona di una New York che non si ferma mai. Il secondo è estroso ed estroverso, con la battuta sempre pronta in bocca ma con anche un’instabilità finanziaria e un dolore stretto in mezzo al petto, che lo trascina giù pure quando sembra stare su. A Real Pain prima ci fa capire e poi ci dice che i due non si sentono e non si vedono più come una volta, quando invece erano legatissimi.
E A Real Pain a partire da questa voragine familiare ingaggia una riflessione sul ruolo e su cosa significa essere la terza generazione di discendenti di sopravvissuti a un genocidio. Pone il dilemma tra il morale e lo storico, sul come commemorare il ricordo di un’esistenza tragica e dirompente come quella attraversata dai propri nonni, che sono stati anche i primi immigrati e a metter radice a cavallo tra due mondi.
David non sembra particolarmente turbato dalla domanda, mentre Benji, che rifiuta ogni norma e buona maniera, non è a suo agio. È giusto permettersi questo esorcismo praticandolo mentre si percorre un luogo che è stata fonte di così tanta sofferenza per gli avi a bordo di posti in prima classe, alberghi confortevoli e lauti pasti? Anche un’esperienza come questa si fonde e confonde in una mercificazione dell’elaborazione introspettiva? È un atto di colonialismo nei confronti del proprio stesso trauma?
Anche qui emerge insomma un dislivello, che sta nella differenza di allineamento tra il vissuto personale e quello comunitario, con una narrazione individuale che è sempre ancorata al corale, che lo subisce e lo influenza. Perché il dolore storico e collettivo riecheggia, filtrato attraverso l’integrazione (e forse anche la distorsione? È inevitabile riflettere sull’azione israeliana a Gaza degli ultimi anni) di determinati valori in un nuovo contesto politico e sociale, che comportano anche nuove forme e dimensioni di malesseri generazionali. Che sono la depressione, le nevrosi e il senso di inadeguatezza, sintomi di un vissuto compresso nei precetti dell’era tardo-capitalista.
La performance di Culkin (e la scrittura del personaggio di Benji) è in questo brillante. L’attore trascina le nevrosi adolescenziali del personaggio da lui interpretato in Succession, la serie che l’ha reso celebre al grande pubblico, in un quarantenne dall’umore instabile, probabilmente depresso e oscillante tra l’estrema, magnetica euforia e l’abisso. E si capisce che Culkin è un interprete straordinario guardandogli il volto, sul quale condensa assieme il picco emotivo e gli occhi spenti, vuoti. Un ruolo che potrebbe consacrarlo con l’Oscar al Miglior attore non protagonista, categoria che peraltro condivide con un altro fantastico performer, Jeremy Strong, assieme al quale è cresciuto proprio in Succession.
Probabilmente dalla direzione generale un po’ manichea, A Real Pain ha poi una regia molto aperta, estremamente leggibile. Chiara sulla conduzione emotiva, ma mai estortrice, e chiara anche nelle immagini della Polonia che sceglie, altrettanto aperte e luminose sotto la fotografia di Michał Dymek, originario di Varsavia. Eisenberg ha però l’ottima premura di drenare via il sentimento facile e rifuggire l’ancoraggio alla certezza degli esiti, cose che fanno arrivare il film a un bell’adagio nel finale, che chiude lì dove tutto inizia segnando l’ultimo tratto di percorso con una circolarità che forse allora non risolve il grande schema delle ipocrisie e dei non detti, ma solo un piccolo tassello.
A Real Pain è al cinema dal 27 febbraio con Searchlight Pictures.