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Alessio Zuccari
I peccatori, recensione del film di Ryan Coogler
Tags: I peccatori, michael b. jordan, Ryan Coogler
Il sodalizio artistico tra Ryan Coogler e Michael B. Jordan va avanti da oltre dieci anni. Inizia nel 2014 con Fruitvale Station, passa per il primo Creed e attraversa il marchingegno Marvel con i due Black Panther. Quattro film che hanno puntellato, ognuno a loro modo, un cinema black contemporaneo – fatto da artisti afroamericani, su temi sentiti dal popolo afroamericano e in dialogo diretto con un pubblico afroamericano – che nell’ultima decade ha impiantato simboli e punti di riferimento nell’industria cinematografica statunitense. Checché se ne possa pensare sotto il profilo del gradimento di gusto, personaggi come Adonis Creed o T’Challa hanno cambiato tutto, in un periodo che ha conosciuto il caso George Floyd, il Black Lives Matter e la polarizzazione sociale della doppia era Trump.
E per portare avanti questo discorso di rafforzamento identitario, Coogler s’è sempre mosso nel campo della pura pop culture, a differenza dell’arthouse (ma a buon budget) di Barry Jenkins o della sagacia afrosurrealista di Jordan Peele. E ancora in questo campo il regista si riunisce con Jordan in occasione de I peccatori, suo primo grande progetto slegato da spunti biografici o franchise. Opera che non rinuncia ai codici espressivi del film d’intrattenimento pensato per il largo consumo, ma li dilata in un formato extralarge, li contamina con la grandeur di una grande ballata di popolo e di tradizioni, salvo poi farla esplodere nel pulp e nel folclore.
I peccatori è una pellicola che ha una gran voglia di scrollarsi polvere ed etichette di spalle. In alcuni frangenti ci riesce, in altri rimane piuttosto indecisa sul da farsi. Parte quasi a rilento quando a Clarksdale, nel Mississipi del 1932, tornano i due gemelli Smokestack, Smoke e Stack. Entrambi interpretati da un Michael B. Jordan che si sdoppia (ma la cui profondità espressiva non rilancia e quindi resta la solita, cioè a metà), hanno lasciato una Chicago dove sembrano aver fatto fortune.
Portano in città parlantina, pistole, soldi e delizie, con in testa l’intenzione di aprire un juke joint, un locale in cui far esibire i musicisti del posto e riunire la comunità. La prima ora di film passa mentre adunano un “party”, un gruppo di persone che li aiuterà e che racconta la storia di chi sono e di chi erano prima. Una ex compagna (Wunmi Mosaku), un’amante (Hailee Steinfeld), un vecchio suonatore (Delroy Lindo), un buttafuori (Omar Benson Miller). E poi lui, il giovane Sammie (Miles Caton): figlio di un predicatore, che con la chitarra stretta in pugno suona e canta un blues che sembra opera degli angeli scesi in terra.
E qualcosa, sulla Terra, discende per davvero. Dopo la prima parte, che avrebbe dovuto seminare meglio, I peccatori accelera tutto insieme, forse troppo insieme. La chitarra di Sammie si fa strumento mistico-sacro, una spada-senza-roccia che è bacchetta per un portale che evoca altri mondi. C’è un momento chiave che segna lo scoccare della mezzanotte del film, cioè la sequenza pazzesca, nonché la più riuscita della pellicola, di una ballata suonata mentre la stanza della bettola si riempie della visualizzazione del presente, del passato e del futuro, in un crocevia della morte che è celebrazione della vita attraverso il tempo.
La musica è il tema cardine attorno al quale si raccordano il racconto e la sua idea di legame in una comunità, e l’incredibile colonna sonora di Ludwig Göransson, che supervisiona arrangiamenti che mescolano assieme l’anima blues e le cupe discese in meandri rock-gotici, fonde senza soluzione di continuità le molteplici anime che infestano una storia che sembra una cosa prima di diventarne un’altra. Il film parte infatti da quell’immaginario, da quell’affresco storicosociale tra campi di cotone e Ku Klux Klan, cartografato in lungo e in largo, e in parte nei suoi risvolti “mitologici”, già nell’opera magna di Jenkins, la serie in dieci atti de La ferrovia sotterranea.
Ma poi impenna con vertigini apertamente sovrannaturali quando accoglie i miti e le credenze “immigrate” dal Vecchio Mondo. Che forse hanno a che vedere con creature assetate di sangue e forse riconducono a un progenitore del male (Jack O’Connell) sopra il quale I peccatori decide di doversi interrogare quanto basta – torna l’esperienza afrosurrealista: indagare le ingiustizie contro il popolo afroamericano attraverso il registro dell’inspiegabile, dell’assurdo.
Allora il film di Coogler si lascia andare ad una lotta per la sopravvivenza che è tripudio di viscere, seduzioni ed artigli. E qui il regista rivisita e internalizza alla sua cifra, alla sua visione, la lezione cult di Dal tramonto all’alba, fatta di confronti e di scontri, senza tuttavia riuscire a rinunciare del tutto a certe sottolineature narrative e sentimentali. Però il terreno che batte I peccatori è encomiabile per alcune delle sue sfrenate intuizioni, che non se ne stanno docili sotto il chiaro di luna.