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Alessio Zuccari
La città proibita: recensione del film di Gabriele Mainetti
Tags: Enrico Borello, gabriele mainetti, La città proibita, marco giallini, sabrina ferilli, Yaxi Liu
Allora, c’è poco da fare: cinema di genere come quello di Gabriele Mainetti, oggi, in Italia, non lo fa nessuno. Con una frase simile si rischia di ripetersi a ogni occasione che il regista arriva al cinema con un nuovo film, cosa purtroppo accaduta appena tre volte nell’arco di dieci anni. Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks Out, ora La città proibita. Il cinecomic, il war movie, adesso il film d’arti marziali. Che non sono mai solo un cinecomic, un war movie o un film d’arti marziali, ma categorie ampie applicate a un qualcosa che scava a fondo nella tradizione locale.
Per questa ragione Mainetti è l’unico autore commerciale che abbiamo. Un termine con cui si possono identificare le traiettorie di un cinema che prende la specificità di un luogo, di un personaggio, di una situazione e le declina dentro un linguaggio d’intrattenimento puro, più largo, trasversale. Che significa anche, forse soprattutto, sapere come lavorare sopra il dosaggio degli elementi. La formula de La città proibita? Un 45% di botte da orbi, un 15% di dramma, un 15% di vena romantica, il restante 25% dato alla commedia verace, grezza, popolare, cerniera che tiene insieme tutto il resto.
E l’efficacia del mix de La città proibita parte dall’intelligenza sulla carta. Dopo le collaborazioni con Nicola Guaglianone, Mainetti si mette in società con Stefano Bises e Davide Serino (non due nomi a caso: l’ultima loro fatica è M. Il figlio del secolo) e insieme sanno che per incrociare i toni occorre prima guardarsi attorno. Il film parte tra le montagne della Cina, ma subito si sposta nel quartiere di Roma multietnico per eccellenza, l’Esquilino, che corre tra la stazione Termini e Piazza Vittorio Emanuele, i cui iconici portici il regista reinventa pieni zeppi di banchetti e bancarelle con nomi e volti provenienti da ogni parte dell’Africa e dell’Asia.
In un contesto simile i commercianti di una volta hanno ceduto il posto o faticano a tirare avanti. Come Marcello (Enrico Borello), che ha ereditato dal padre Alfredo (Luca Zingaretti) l’omonimo ristorante che va così così mentre lui ha abbandonato moglie (Sabrina Ferilli) e figlio per scappare con una prostituta cinese. Ma sulle tracce di quest’ultima c’è la sorella Mei (Yaxi Liu, stuntwoman cinese tra le altre cose ddel live action di Mulan), furia delle arti marziali che ha viaggiato fino a qui per riportarla indietro. E già da un trampolino di partenza simile è centrato perfettamente l’incunearsi nella faida tra chi c’era prima e chi c’è adesso, a metà tra influenze economico-politiche e le credenze popolari di un’Italia un po’ bigotta e un po’ affaticata. Come lo è l’amico della famiglia di Marcello, il rugoso boss della vecchia guardia Annibale (Marco Giallini), in scontro con la crescente comunità cinese, la più numerosa in quella zona di Roma, che risponde ai comandi di Mr. Wang (Chunyu Shanshan).
Su questa matrice di folklore impastato al razzismo, La città proibita alimenta un movimento narrativo che miscela insieme il realismo a una sorta di fantasy urbano, ingigantendo in salsa pop la dimensione delle mafie locali e culturali. Ingigantendo anche le dicerie che nel film prendono forme e colori esagerati di una Roma che sembra davvero Cina ed esasperando persino gli spazi fisici, come le infinite gallerie che fa percorrere sotto il suolo del quartiere a uso e consumo di un sottobosco criminoso che si genera a partire dall’immaginario e dai luoghi comuni.
In un teatro di scena simile si intersecano allora interessi personali che non possono che collidere e collassare con l’arrivo di Mei, implacabile macchina del kung fu in cerca di risposte e vendetta. Sequenze d’azione come quelle de La città proibita qui da noi molto probabilmente non le abbiamo mai viste. Mainetti sa benissimo cosa fare con la macchina da presa e come farlo, che danza attorno a Mei con estrema ricercatezza dei tempi, del ritmo e dell’enfasi dell’impatto- gran lavoro dell’action designer Liang Yang, ma non sottovalutate quello sul sonoro, fondamentale. Si diverte e diverte nello stimolare una creatività ludica negli scontri, che arrivano a utilizzare come strumenti di offesa gli oggetti più improbabili e soprattutto sfruttano a dovere gli scenari (una scena in cucina è a proposito da manuale), in un crescendo di soluzioni che in certi frangenti sembrano di non avere nulla da invidiare alla gestione delle coreografie e dell’intensità del combattimento a esponenti recenti e illustri come ad esempio John Wick.
E quando occorre rifiatare il film fa ridere e molto, seppur sempre velato di una malinconia un po’ terminale, un po’ crepuscolare. Il personaggio di Borello è un protagonista al limite, fiaccato dall’inizio alla fine, tardo millennial destinato a prendere schiaffi dalla vita e da tutti quelli che gli stanno attorno. Tanto brava è Liu a comunicare la frustrazione di Mei attraverso la tensione fisica del suo corpo, quanto lo è allora Borello nel restituire in naturalezza l’accettare il proprio stato di rassegnazione, mitigandone l’asprezza con un’ironia che gli riesce spontanea nel dare e nell’incassare la battuta.
Anche se un peccato di gola La città proibita lo ha e sta nella gestione proprio del romanticismo, un umore verso cui i personaggi convergono perché, in quel momento, semplicemente sta bene che si ritrovino lì raccolti in un abbraccio tra disgraziati. Non un qualcosa che stona davvero, solo ragionato in funzione dell’indurre determinate sensazioni cinematografiche e magari con un certo ammiccare all’esportabilità (il giro in vespa dei due tra le bellezze artistiche della capitale). Un discorso limitrofo alle traiettorie di empatia che il film vuole descrivere e che tenta di assegnare al cuore di figure di padri e mentori a cui Mainetti probabilmente vuole un po’ troppo bene. Individui pieni di grigiori e in una certa misura anche spregevoli, cosa che li rende affascinanti da un punto di vista squisitamente drammaturgico, ma verso cui ci si proietta con un’indulgenza abbastanza anacronistica se osservati alla luce rivelatoria dello spirito del nostro tempo.
Ma film così, insomma, praticamente non ne facciamo. E sì, rischiamo davvero di ripeterci in ogni occasione. Forse vorremmo però ripeterci di più e vedere Mainetti sugli schermi più spesso. Ma forse vorremmo anche ripeterci meno, confidando sempre in un’industria che sappia prima o poi essere più recettiva nell’accogliere e incentivare questo tipo di esperienze.
La città probita è al cinema dal 13 marzo con PIPERFILM.