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Martina Barone

RoFF17 | The Fabelmans: recensione del film definitivo di e su Steven Spielberg

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RoFF17 | The Fabelmans: recensione del film definitivo di e su Steven Spielberg

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Steven Spielberg racconta se stesso perché in The Fabelmans il fulcro è il cinema, da non perdere in sala dal 15 dicembre

Ci sono amori che travalicano i tempi. Quelli estesi e espansi di un’arte come quella cinematografica che giunge da quel primo arrivo al treno fin alla iper-tecnologia dell’Avatar di James Cameron. Che portano il genere western e quello del musical a fare da apripista all’intrattenimento popolare per poi lasciare spazio alla ribelle giovinezza della Nouvelle Vague fino allo stravolgimento digitale della “matrice” di Matrix. Nel suo essere un’arte assolutamente giovane, il cinema è al contempo uno dei più grandi contenitori di opere immortali che la modernità ci ha donato, nonché inedita forma per esercitare il nostro controllo sulla realtà che si muove paurosa e frenetica attorno.

Saper incastonare su pellicola i terrori di una vita che nasconde insidie dietro a ogni angolo è stato per la settima arte un superpotere di cui sono diventati rappresentanti i più grandi pionieri del mezzo cinematografico. E forse i più grandi fifoni. The Fabelmans mette in scena l’avvicinamento di un giovane Steven Spielberg, rinominato da se stesso Sam, che impressionato dallo schianto del treno in Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille ha voluto riprodurre nello scantinato della sua casa quell’incidente violento e distruttivo. L’ha ricostruito, montandolo secondo i dettami cinematografici, per renderlo padrone di ciò che nella vita reale potrebbe anche accadere, ma che col cinema siamo noi stessi a poter modellare.

The Fabelmans: vi presento la famiglia Spielberg

Dallo shock del più sconvolgente evento della vita di Steven Spielberg, una locomotiva che non ha soltanto travolto la macchina dei personaggi del film di DeMille, ma ha tramortito il bambino-regista medesimo restituendogli il più grande trauma della sua vita, nasce uno dei cineasti la cui anima fanciullesca arriva anche nella sua opera girata a settant’anni. Nella fotografia di un’esistenza che negli ultimi anni è tornata con prepotenza sotto la lente di ingrandimento dell’autore, che parte dal documentario Spielberg fino alla dedica al padre nel suo sogno di una vita West Side Story, il regista ha deciso che è arrivato il momento di rendere evidente l’influenza che la sua famiglia ha avuto nella propria formazione, anche artistica.

Di come i rapporti tra i genitori, l’immaginazione galoppante della madre e il fare devoto e inappuntabile del padre, siano stati materia che Steven Spielberg ha rimodellato per la sua intera carriera, riversandola secondo le più disparate declinazioni. Nella madre single con i suoi bambini in E.T. l’extra-terrestre, nell’ossessione del padre di Incontri ravvicinati del terzo tipo, nel saper tornare bambini anche in fase adulta col protagonista di Hood – Capitan Uncino diventato poi il Peter Pan di Robin William.

Dove posizionare l’orizzonte

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Credits: 01 Distribution

Nei rimandi a delle proprie stesse influenze che hanno poi determinato i successi dei suoi film – dall’Oscar per Salvate il soldato Ryan al posizionamento dell’orizzonte che, come insegnava John Ford, non doveva mai essere al centro, semmai in alto o in basso -, The Fabelmans è tutto ciò che Steven Spielberg è perché Steven Spielberg è il cinema. Il suo, di una generazione, di quella che verrà. È il concetto stesso, è il nucleo puro di una cinefilia di un filone di registi che, assieme ai suoi amici George Lucas, Martin Scorsese e Brian De Palma, ha deciso di fare film. Ha scelto di dedicarsi al cinema. Non è stata chiamata dai fiumi dorati di Hollywood per le nuove possibilità che offriva, bensì sono stati i primi figli che quel percorso lo hanno voluto percorrere davvero, non considerandolo più soltanto un’industria o un hobby.

È lì perciò che l’autore incastra i propri ricordi con quel talento venuto fuori proprio in quanto era stata la realtà stessa a condizionarlo. Poiché i suoi occhi, terrorizzati dalla grandezza di ciò che accadeva attorno, non potevano trattenerne tutta l’infinitezza, che Steven Spielberg ha così racchiuso nelle sue mani. Non a caso sono le mani (mani da bambino) le protagoniste della sequenza più emozionante di The Fabelmans. Sono le mani che contengono il primo film realizzato da bambino di Sammy, in cui il proiettore si riflette e la luce si infrange riproducendo la sua creazione. Le mani di un Dio cinematografico che ha profetizzato la sua strada già da ragazzino, per un’arte che non l’ha mai, mai abbandonato. Anche quando ha provato a mettere la cinepresa da parte.

Un’intera sala e la sua Spielberg Face

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Credits: 01 Distribution

Per quanto l’infanzia, l’adolescenza e il prospetto di quale sarebbe stata la sua carriera, con il film che si conclude proprio nel momento in cui quest’ultima sta per cominciare, in The Fabelmans è l’essere insito di Spielberg il sinonimo di cinema. È anteporre allo sguardo del pubblico quello di un autore che attraverso la camera ha scoperto un tradimento che sperava non fosse autentico. È il suo aver utilizzato le capacità del cinema per piegare un bullo che lo picchiava, portandolo al pianto dopo averlo mostrarlo a tutta la scuola nel filmino del liceo non come un cattivo, bensì rendendolo il ragazzo d’oro che lui stesso ammette nella realtà non sarebbe mai stato. Ed è vedere il cineasta riprendere più volte il protagonista di spalle verso il grande schermo all’interno di una sala. È riverberare un simulacro che è finzionale in quell’istante della pellicola, ma che è anche vero visto che siamo noi, in quanto spettatori, fermi e incantati a guardare l’opera.

Se il giovane Sam/Steven sapeva già come modulare le percezioni e i sentimenti degli spettatori, allora Sam/Steven con The Fabelmans ci conduce nella giovinezza di un uomo di cinema, nella dedizione verso la sua famiglia e nella combinazione di due fattori che, lo zio Boris lo aveva avvertito, gli avrebbero strappato il cuore. Lo hanno fatto a lui, lo hanno fatto allo spettatore. Che oltre alla posizione di osservanza religiosa verso la luce di un proiettore, vede nel film e nello spettatore il marchio distintivo dell’autore. La sua Spielberg Face. Quella di Sam quando scopre il cinema e quella del pubblico che a sua volta lo ri-scopre tutte le volte che si trova davanti ad un capolavoro di Steven Spielberg. Una pellicola che è insieme ricordo e testamento, definitiva eppure pronta alla prossima mirabolante giostra dell’autore. È tutto quanto il cinema perché è il cinema di Steven Spielberg.

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