Alla Mostra del Cinema di Venezia, Marco racconta la storia di un impostore che finge di essere sopravvissuto ai campi di concentramento.
Presentato nella sezione Orizzonti dell’81ª Mostra del Cinema di Venezia, Marco è un’opera che affonda le sue radici in una storia vera e controversa: quella di un uomo che per anni ha mentito spacciandosi per sopravvissuto a un campo di concentramento nazista. Il film, firmato da Aitor Arregi e Jon Garaño, affronta il delicato tema del falso ricordo e del bisogno disperato di legittimazione, muovendosi lungo il labile confine tra realtà e finzione.
Fin da subito, la narrazione gioca con lo spettatore: l’introduzione con il ciak cinematografico e l’inserimento di materiali d’archivio — come i filmati della presentazione del libro L’impostore di Javier Cercas — sfumano i confini tra ciò che è documentato e ciò che viene ricostruito. Questa scelta metanarrativa diventa parte integrante del racconto, sottolineando quanto la verità possa essere manipolabile, e quanto facilmente possiamo diventarne complici inconsapevoli.
Nonostante l’originalità della struttura, il film non riesce sempre a sostenere il proprio impianto drammaturgico. La sceneggiatura, pur efficace nei momenti chiave, in alcuni passaggi appare eccessivamente esplicita, quasi didattica, togliendo spessore al potenziale disturbante della vicenda. La tensione si diluisce in un ritmo lineare, privo di slanci narrativi che avrebbero potuto enfatizzare il progressivo sgretolarsi della facciata costruita dal protagonista.

Ciò che davvero funziona in Marco è la caratterizzazione dei personaggi. Il protagonista, interpretato con grande intensità da Eduard Fernández, è un uomo divorato dall’ansia di essere smascherato e, al contempo, innamorato della propria immagine pubblica. L’attore restituisce con credibilità le contraddizioni di un uomo che si aggrappa a una menzogna tanto assurda quanto salvifica. Attorno a lui, la famiglia e i membri dell’associazione delle vittime dell’Olocausto iniziano a mostrare incrinature, alimentando il senso di sospetto e ambiguità.
La pellicola mantiene un tono sobrio, ma non rinuncia a una vena ironica sottile, che emerge nei momenti più grotteschi dell’autocelebrazione del protagonista. Questo equilibrio tra dramma e leggerezza contribuisce a rendere più sfaccettato il ritratto psicologico al centro della storia. Peccato che, nella parte finale, la narrazione perda mordente: l’ultima mezz’ora si trascina, lasciando lo spettatore in attesa di una chiusura che tarda ad arrivare.
Dal punto di vista tecnico, il film è solido: i dialoghi sono curati, spesso brillanti, e capaci di tratteggiare con precisione i rapporti tra i personaggi. Il montaggio alterna con efficacia le diverse linee temporali, senza mai risultare confuso o artificioso. Anche la colonna sonora accompagna con discrezione le svolte emotive, rafforzando la tensione nei momenti cruciali.
Marco è una riflessione acuta sull’identità e sulla costruzione della verità personale. Sebbene manchi quella spinta narrativa capace di renderlo un’opera pienamente riuscita, il film riesce comunque a sollevare interrogativi profondi sul bisogno di riconoscimento, sull’autonarrazione e sull’ambiguità morale che si nasconde dietro la menzogna.
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