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Martina Barone
Venezia79 | The Son: recensione del film con Hugh Jackman
Tags: hugh jackman, The Son, Venezia79
Dopo The Father, l’autore Florian Zeller torna al cinema con The Son, film drammatico sul rapporto padre-figlio presentato a Venezia79
Florian Zeller con The Father ha giocato in casa. Letteralmente. Il film sulla vecchiaia e l’Alzheimer viene costruito dallo sceneggiatore e ideatore della pièce teatrale similmente ad un thriller in cui incastrare il protagonista, prigioniero della sua stessa mente, chiusa e senza vie di uscita come bloccato all’interno di una scatola. Un’impostazione che giocava con la percezione dello spettatore e sembrava far muovere un palcoscenico intento a cambiare ad ogni svolta le proprie scene, non nascondendo nulla dietro le quinte e ponendo il disagio del personaggio di Anthony Hopkins sotto i riflettori.
Anche The Son, seconda opera da regista al cinema che l’autore francese ha steso e sceneggiato, parte dall’opera per il teatro Le Fils, che è compresa nella trilogia di cui manca al cinema ora solamente La Mère (The Mother). Ma a differenza del suo debutto sul grande schermo, Zeller si sgancia dalla famigliarità drammaturgica che aveva avvicinato The Father ad una rappresentazione (simil) dal vivo, impostandolo ben al di fuori dal confort di un perimetro circoscritto – seppur ricco di creatività – di un palco. Un portare la storia in una vera e propria dimensione cinematografica, agendo ancora per ellissi nella gestione del tempo del racconto, spostandolo però anche con maggior diversificazione nello spazio.
Questo scenario più classico per il film The Son potrebbe essere dovuto dall’idea di cercare un differente respiro tra le due pellicole al momento all’attivo del regista, non avendo la necessità di far passare con uno stratagemma visivo l’interiorità dei personaggi, perdendo però una brillantezza che invece esaltava la messinscena di The Father. Forse il tentativo anche, coraggioso e funzionale per la narrazione della storia, di osare di più nel cercare di adattarsi ad un contenitore come quello del cinema a cui l’autore va sempre più appropinquandosi, uscendo proprio da quelle camere che erano diventate unico luogo di racconto dell’opera precedente e sperimentando qualcosa di nuovo.
Che sia questa libertà di movimento a influenzare l’edificazione o meno di The Son porta comunque Florian Zeller a confrontarsi con una retrocessione rispetto allo stupore con cui aveva impressionato il suo esordio, dando la sensazione di trovarsi davanti ad una pellicola ridotta all’essenziale, pur sapendo come comunicare con asciuttezza nei picchi di emozione. Lo scheletro dell’opera è quello di una relazione conflittuale tra un padre e un figlio, con un genitore a sua volta memore delle mancanze e delle cedevolezze di una figura paterna assente e respingente, cercando di allontanarsene pur avendo paura di finire per assomigliarli.
Un uomo di successo, che ha condotto parallelamente la propria vita privata e quella sul lavoro, passando senz’altro molte più ore in ufficio piuttosto che dentro casa, ma pur provando con tutte le proprie forze di essere una figura presente e costante come suo padre non aveva saputo fare. Ma se è una forma acuta di depressione quella che affligge il figlio Nicholas (Zen McGrath) allora c’è ben poco a cui potersi aggrappare, se non provare a sconfiggere un dolore, personale e di quel ragazzo che non si sente in grado di poter vivere, che rimane però inspiegabile.
Poiché c’è sicuramente l’essersi sentito abbandonato di un giovane che, quando era ancora un ragazzino, ha visto il padre lasciare la propria madre per cominciare da capo con un’altra donna. C’è la sensazione di essere messi costantemente sotto pressione da un circolo famigliare pieno di ambizioni e traguardi da doversi prefissare. C’è una pressione soffocante che impedisce a volte di comunicare, offuscando la mente e i pensieri non sapendoli neanche più formulare.
Nel voler tratteggiare un male ingombrante che però Zeller non voleva drappeggiare con un eccesso finzionale di sofferenza, The Son è la confusione di un ragazzo che, probabilmente, non sa più come vivere e di un genitore che deve affrontare le conseguenze di un’esistenza impossibile da pianificare. Non il darsi la colpa per aver intrapreso un’altra strada. Non l’aver deciso di non proseguire in un rapporto insoddisfacente tenuto insieme solamente proprio per amore del figlio. L’opera è un urlo strozzato che cerca di dire allo spettatore che è pur vero che la vita è portata a condurci verso scelte inattese e a volte non condivise dagli altri, ma che se qualcosa è irrimediabilmente rotto è più facile che venga condotto ad una fine inevitabile.
Un film semplice The Son nel suo rigore formale, intenso per i tocchi vulnerabili e umani di un Hugh Jackman che impersona con tenerezza questo uomo il quale rimarrà a propria volta spezzato, sincero tanto nei suoi scatti di rabbia quanto nelle lacrime che non vorrebbe trovarsi a versare. L’impotenza con cui non si vorrebbe mai confrontare un genitore. L’aver messo al mondo una propria creatura e avere costantemente il timore di non saperla proteggere.