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Alessio Zuccari
Andrew Haigh e il cinema dei fantasmi
Tags: 45 anni, andrew haigh, Estranei, weekend
Il cinema di Andrew Haigh è un cinema di fantasmi. Fantasmi che sono sempre la proiezione-testimonianza di un’interiorità da conciliare, o riconciliare, in accordo all’altro e forse in primis a se stessi. L’ultimo film del regista inglese classe 1973, Estranei, ne è la definitiva testimonianza. Qui sorge una periferia londinese dove la City è solo a portata di sguardo, e all’interno di questa, striscia di confine che delimita il regno dei vivi da quello dei morti, si staglia un palazzone nuovo di zecca, alto e silenzioso. Nonostante i suoi molti piani, i suoi molti corridoi e i suoi molti appartamenti, dentro ci abitano solo Adam (Andrew Scott) e Harry (Paul Mescal).
È una torre che assume l’aspetto di un limbo verticale, rappresentazione fisica di quella che è una sorta di soffocante gentrificazione dei sentimenti che Haigh porta con Estranei alla sua elaborazione più misterica e angosciosa. Questo quasi grattacielo, di cui non sembra vedersi mai l’inizio e mai la fine, è luogo di messa in discussione dei rapporti umani rimasti spezzati in bocca e tra le dita delle mani. Discussione con la famiglia, che il protagonista Andrew proietta in un’impossibile estensione del tempo perduto immaginandosi in dialogo con i genitori (Claire Foy e Jamie Bell) scomparsi trent’anni prima. Discussione con Harry, quel ragazzo più giovane di lui che abita a qualche metro di distanza in cui il regista impasta il fantasma ad un altro tema a lui caro, quello dell’estraneo, per l’appunto. Figura questa in cui condensa a sua volta la distanza siderale e tragicamente incolmabile al modo in cui si centrifugano sessualità e sentimento, al modo in cui incontrano-scontrano le espressioni individuali e generazionali.
Riavvolgendo il calendario, di come Haigh affronti ciò si ha traccia in realtà già in Weekend, suo film del 2011 con cui iniziò a farsi notare in giro. C’era già la verticalità urbana a significante di un certo tipo di isolazionismo umano, interiore, emotivo. C’era già l’intensità di un incontro tra due estraneità, Russell (Tom Cullen) e Glen (Chris New). E c’erano già anche la disco, l’alcol, la droga, le discussioni, gli odori e i sudori che raccontavano come elementi ancillari, ma cruciali, i differenti modi di elaborazione e accettazione della propria sessualità e quindi pure della propria identità.
Anche su Weekend aleggiavano spettri. Si insinuavano placidi per lo più nei silenzi e negli sguardi dalla finestra, negli orizzonti di una città, e quindi di un vivere comune, talvolta troppo in basso per calarcisi realmente dentro. Ma questo secondo film di Haigh, asciutto e mediato pochissimo (non c’è nemmeno l’accompagnamento musicale esterno), è il tessuto su cui si dirama il fantasy romantico di quello che sarà poi Estranei, che sì è adattato a partire dal romanzo omonimo di Taichi Yamada, ma sembra già essere del tutto interiorizzato dal regista dieci anni prima.
C’è però un punto intermedio tra queste due differenti formulazioni delle stesse tematiche. È 45 anni, pellicola che l’autore britannico nel 2015 porta al Festival di Berlino e con cui qui fa vincere il premio a Miglior attrice e Miglior attore ai suoi due protagonisti, Charlotte Rampling e Tom Courtenay. I due, Kate e Geoff, sono una coppia di coniugi prossima a festeggiare i 40 anni del loro matrimonio, per il quale hanno organizzato una grande rievocazione della cerimonia. All’improvviso arriva una inaspettata lettera dalla Germania: è indirizzata a Geoff e gli comunica del ritrovamento del corpo di Katya, sua compagna negli anni Sessanta rimasta uccisa e sepolta sotto una valanga quasi cinquant’anni prima.
Eccola qui, la prima manifestazione concreta del fantasma che porta poi il cinema di Haigh lì dove va con Estranei. Il ricordo di Katya avvelena le direttrici che legano questa coppia che è insieme da mezzo secolo, si propaga nell’aria di un’abitazione che nell’arco di una settimana diventa dominio di un sentimento terzo e rimasto in sospeso troppo a lungo. In quello che tutt’ora resta forse il lavoro di Haigh più maturo ed implacabile (anche se raccoglie solo in parte le discussioni che alla sua poetica stanno più a cuore), è sconvolgente assistere alla progressiva materializzazione del fantasma. Dall’iniziale freddezza e comprensibile turbamento nel rapporto tra i coniugi, si arriva a una vera e propria concretizzazione dello shock e del sospetto. Avviene in soffitta – quale altro luogo per uno spettro se non questo? – nel momento in cui Kate trova delle vecchie diapositive del marito. Le inserisce nel proiettore e su un lenzuolo adibito a schermo compare infine Katya. Da qui non si torna indietro. E proprio come compariranno, nel 2023 e generati da un altro contenitore della memoria come la casa d’infanzia, i genitori di Adam.
Per leggere e immergersi nei dolori metafisici di Estranei occorre insomma passare anche da queste due coordinate. Per rintracciare i punti di contatto nel cinema ancora fresco di Andrew Haigh – dal 2009 ad oggi appena cinque film – Weekend e 45 anni rappresentano due step cruciali di uno sguardo che appare delineato, consapevole, a fuoco. E che a questo punto sembra vincolato all’approfondire quello che è un modo unico di intendere l’interiorità umana.