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RoFF18 | C'è ancora domani, recensione del film di Paola Cortellesi
Alessio Zuccari

RoFF18 | C'è ancora domani, recensione del film di Paola Cortellesi

Tags: c'è ancora domani, paola cortellesi, RoFF18
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Alessio Zuccari

RoFF18 | C'è ancora domani, recensione del film di Paola Cortellesi

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L’esordio alla regia della celebre attrice è un’opera solida e intelligente. Un ritratto al femminile ironico e graffiante, cartolina di una società chiamata a cambiare direzione.

Paola Cortellesi è uno di quei rarissimi nomi che in Italia sono ancora capaci di spostare numeri al botteghino. Se in un film c’è lei, quel film ha qualche possibilità in più di incassare bene. È la dinamica dello star system, della celebrità come centro catalizzatore, sulla quale Hollywood ha fondato e continua a fondare un’intera industria, ma che nel nostro Paese è un meccanismo arrugginito. Questa eccezionalità allora non può che far accendere un riflettore in più sopra C’è ancora domani, esordio alla regia di Cortellesi.

Perché già di per sé il passaggio dietro la macchina da presa di attori affermati denota un certo interesse, a maggior ragione se a fare il grande passo è qualcuno capace di parlare alle masse, capace di instaurare una prossimità con il popolare. Insomma, anche se si dovrebbe evitare di responsabilizzare a priori un film o un’opera d’arte, C’è ancora domani aveva in effetti una responsabilità non da poco.

Una nazione alle porte di una svolta epocale

RoFF18 | C'è ancora domani, recensione del film di Paola Cortellesi
Photo Credits: Vision Distribution

È dunque lodevole che la novella regista – nonché sceneggiatrice al fianco di Furio Andreotti e Giulia Calenda – scarti di netto il rischio del rifugio nella zona nota, nel tiepido, nell’innocuo. In C’è ancora domani ci sono certo Roma e la romanità, cavallo di battaglia di una caratterizzazione professionale forte e definita dell’attrice. Ma le lancette del tempo fanno diversi giri indietro, fino al 1946. La guerra è finita e l’Italia è finalmente libera dalla morsa nazifascista, le truppe americane pattugliano le strade della capitale e si avvicina un voto fondamentale per il futuro della nazione.

Sono le elezioni del giugno 1946, le prime del post-regime. Non solo: sono le prime in cui sarà permesso votare – e candidarsi – anche alle donne. Una svolta epocale che segna l’apertura ad un progresso sociale tanto agognato, eppure già affaticato dai rapidi anacronismi in cui il corso della Storia finisce spesso per incappare. Infatti il 2 giugno, il giorno del voto, si avvicina, ma nelle quattro pareti del privato la storia, stavolta con la s minuscola perché quella individuale, fatica a tenere il passo. «Cara, taci», «Ha il difetto del rispondere», «È che non sa stare zitta» sono solo alcune delle frasi che ronzano ancora e ancora nelle orecchie di donne costrette al giogo del marito-padrone.

Una di queste è Delia (Cortellesi), che si fa in quattro tutto il giorno per sbrigare le faccende casalinghe. Alla mattina un salto a fare la spesa dall’amica e complice Marisa (Emanuela Fanelli), poi il pranzo per figli piccoli scapestrati, nel pomeriggio un vestito rammendato per la più grande Marcella (Romana Maggiora Vergano), che fra poco si dovrebbe maritare con il buon partito Giulio (Francesco Centorame). E quando alla sera rincasa Ivano (Valerio Mastandrea), il massimo a cui Delia può aspirare è l’evitare le legnate sulla schiena, così come le chiama il cognato carogna Ottorino (Giorgio Colangeli). Si può sperare altro? Si può sognare una fuga lontana? Forse sì, quando arriva una lettera misteriosa indirizzata a Delia.

Aggredire con la tenacia dell’ironia le strutture della società patriarcale

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Photo Credits: Vision Distribution

Ecco, non è da poco nemmeno come C’è ancora domani sappia ricamare la commedia tra i nodi di questo arazzo che tratteggia i retaggi, tutt’ora tristemente attuali, di un’intera nazione declinata al maschile. Cortellesi lavora dunque con graffiante ironia sopra l’attaccamento alle tradizioni, alle ritualità, alle strutture sociali concepite come rigide e quindi come briglie con cui tenere al freno. Chi regge queste briglie? Il patriarca. Che sia quello che impera all’interno della piramide sbilenca della famiglia, o che sia quello intrecciato nella sostanza dell’istituzione sociale o religiosa – come ammonisce il prete: Dio, che è uomo, giudica e legifera.

Il film sviluppa con piglio agile e tragicomico le riflessioni sopra le numerose disparità di genere annidate negli angoli della società, dal gender gap salariale sul luogo di lavoro al diritto alla parola mentre si pranza a tavola. L’opera di Cortellesi non scade nemmeno per un istante nella sottolineatura del tema, nel rafforzamento artificioso della sua sostanza argomentativa. L’ottima sceneggiatura coglie la radice ironica anche nei momenti più bui, non perché li nasconda sotto al tappeto – l’opposto –, ma perché ha la tenacia di renderli motore dell’empowering, della presa di forza della sua protagonista, la cui interprete ha un repertorio di caratteri ben inquadrato e attraverso quello discute la sua tesi.

Quindi il riso di C’è ancora domani è un riso abbandonante e amaro, ma allo stesso tempo anticamera di uno sguardo mai arrendevole. C’è spazio anche per le sorprese, i colpi di scena coerenti e che non distolgono l’attenzione, fino ad arrivare a un finale azzeccato e commovente, baricentro perfetto della scalata in libertà di Delia. E quindi si può dire: che esordio solido quello di Cortellesi, che dignità il femminile che racconta. Ad avercene ancora.

Guarda il trailer di C’è ancora domani:

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