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Alessio Zuccari
Chi segna vince: recensione del nuovo film di Taika Waititi
Tags: chi segna vince, michael fassbender, taika waititi
L’isola felice di Taika Waititi sta da qualche parte tra l’umorismo decerebrato e i buoni sentimenti. JoJo Rabbit, film con il quale il regista neozelandese classe 1975 si è consacrato con un Oscar alla Miglior sceneggiatura nel 2020, lo mostrava bene. Un modo originale di raccontare ancora il dramma del nazismo, dove il filtro era un’ironia strampalata (e anche rischiosa, a dire il vero) portata ad altezza di fanciullo e cui importante peso della bilancia stava nella forte alchimia tra gli interpreti. Non dovrebbe allora cogliere impreparati che Chi segna vince, nuova opera che Waititi dirige e che sceneggia assieme a Iain Morris, rientri ancora in questo campo.
Lo facevano in qualche maniera anche le due parentesi Marvel con Thor: Ragnarok e Thor: Love and Thunder, seppur quel tipo di progetti rispondevano a ben altre esigenze, come quella di rinvigorire il personaggio del Dio del tuono sul quale la formula Waititi non è stata propriamente apprezzata da tutti. Con questa operazione il regista torna insomma a fare le sue cose, anche se con un passo che si percepisce più cauto. Il respiro è contenuto e il tutto si getta su basi già solide: il film si ispira all’omonimo documentario di Mike Brett e Steve Jamison di una decina d’anni fa, incentrato attorno alla figura dell’allenatore di calcio Thomas Rongen.
Personaggio spigoloso, eccentrico, un po’ alcolizzato e fuori dalle righe che Michael Fassbender declina perfettamente come antieroe bell’e pronto alla visione di Waititi. Dopo una serie di pessimi risultati e comportamenti inappropriati, a Rongen viene infatti proposto dalla federazione (Elisabeth Moss, Will Arnett) il compito-punizione-riabilitazione di allenare la nazionale delle Samoa Americane. Nazionale rinomata per due cose: essere l’ultima nel ranking mondiale e detenere la peggior sconfitta in una competizione ufficiale internazionale, di 31-0 contro l’Australia nel 2001.
Quella di Chi segna vince non è però la storia del classico film di rivalsa sportivo. Sì, c’è l’underdog, cioè uno sfavorito; ma non è la squadra di calcio, è Rongen. Sì, ci sono una chance e un obiettivo; ma non sono il tentare di qualificarsi ai mondiali, bensì permettere a quest’uomo di fare pace con se stesso. Dopotutto c’è anche da fare i conti con il fatto che, per quanto doloroso possa essere ammetterlo, il calcio non è proprio uno sport cinematografico.
Quindi questo film s’ha da fare fuori dal rettangolo di gioco. Proprio Waititi, nei panni di un prete samoano in un immancabile cameo, ci introduce a questa storiella di redenzione che lui in primis vende come tale. E che poi come tale tenta di connotare in tutti i modi: dal confronto-scontro con una realtà culturale diametralmente opposta all’idea di competizione del “salvatore bianco” statunitense, fino all’inclusione comunitaria come radice dell’accettazione della diversità e del valore altrui.
C’è però da ammettere che Chi segna vince resta abbastanza indeciso nel mezzo di questi vettori. Molta dell’ironia sul quale la pellicola tenta di far leva è venata di un umorismo demenziale dal contorno più della freddura che dell’irriverenza. Scaturisce, com’è inevitabile che sia, dalle differenti lunghezze d’onda sulle quali navigano in un primo momento Rongen e tutti gli altri che lo circondano. Le gag funzionano a intermittenza e non creano mai un vero e proprio flusso, un dialogo in continuità anche con quella che è l’identità balsamica dei samoani. Ad esempio, in un paio di momenti viene fatta emergere la profonda religiosità di questo popolo, eppure l’aspetto rimane evocato come un dato di fatto, non come spunto d’approfondimento sulla loro pacifica concezione della vita.
Quello di cui il personaggio di Rongen soffre – che in fondo è forse più drammatico che comico e come tale il suo arco andrebbe trattato – è una conversione di visione e atteggiamento fin troppo repentina, fin troppo meccanica. Questo accade anche a causa della presenza del personaggio di Jaiyah Saelua (Kaimana), prima calciatrice transgender a giocare in un match di qualificazione ai mondiali. Al rapporto a specchio tra l’allenatore e la ragazza, prima conflittuale e poi quasi confusamente paterno, è affidato molto delle sorti d’equilibrio del film. Ma il tema delle fa’afafine, persone che si identificano come terzo genere nella cultura delle Samoa, è tanto forte da scalciare e tirare quasi in secondo piano tutto il resto e allo stesso tempo parziale da non salire mai davvero in cattedra.
Chi segna vince resta così a galleggiare al centro di una sorta di triangolo delle Bermuda. La sua metafora sportiva non si ibrida mai a fondo con l’ironia, i suoi personaggi maggiormenti incisivi non evolvono appieno e il sentimentalismo commenta davvero poco la placida squisitezza del popolo. Un sorriso viene strappato, ma anche una scrollata di spalle.