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Alessio Zuccari
Il nemico: recensione del film con Saoirse Ronan e Paul Mescal
Tags: il nemico, paul mescal, prime video, saoirse ronan
Sono anni che il cinema ci sta dicendo cosa c’è alla fine del mondo. Disastri climatici, temperature fuori controllo, carestie globali e generale mancanza di risorse. Da lì, spesso, le guerre. Chi può, se ne fugge via in colonie extramondo. Chi non può, rimane a prosciugarsi in qualche angolo disperato di una Terra sempre più avvizzita. Il nemico, film che in Italia arriva come esclusiva in streaming su Prime Video, non fa eccezione a questo background.
È il 2065 e la Terra è infatti devastata da tormente, fa un caldo maledetto e il suolo è arido. Siamo nel Midwest degli Stati Uniti, una grossa porzione di territorio in cui non sembra abitare nessuno per miglia e miglia. Ogni tanto svetta in verticale l’industria alimentare di qualche multinazionale. Non si riesce a coltivare praticamente nulla e l’entroterra del Paese a stelle e strisce è una lunga distesa desertica e inospitale. Una casa resiste in quella che una volta era brughiera. Ci vivono Hen (Saoirse Ronan) e suo marito Junior (Paul Mescal). Sono giovani, eppure sono sposati da diverso tempo e si ritrovano già al capolinea di un matrimonio arrabbiato e rancoroso che sembra aver attraversato i secoli – anche per come sono vestiti e per come appaiono le mura di questa abitazione, che resiste da quasi duecento anni di generazione in generazione.
La sceneggiatura di Iain Reid – già autore di I’m Thinking of Ending Things e del romanzo da cui è tratto Il nemico – e Garth Davis, che dirige anche, ci suggerisce che un tempo questi due si amavano. Ma ora paiono espatriati dalle loro stesse vite e dal loro stesso rapporto. E forse in questa direzione va la scelta di andare a prendere come protagonisti della storia attori entrambi irlandesi. Da una parte la futura Meryl Streep, dall’altra il nuovo volto pulito e pupillo di Hollywood – comunque non vergine di ruoli maschili spigolosi e controversi: come in Creature di Dio e a teatro nei panni di Stanley Kowalski in Un tram che si chiama desiderio, per il quale nel 2023 ha vinto il Laurence Olivier Award al miglior attore.
Quasi che il film volesse decontestualizzarli dal qui e ora in cui li piazza, creargli una vertigine sotto i piedi. Vertigine che a dire il vero si allarga in fretta quando fa il suo ingresso in scena Terrance (Aaron Pierre), funzionario per la Outermore, azienda governativa che si sta occupando della “migrazione climatica” su stazioni spaziali. Comunica alla coppia che Junior è stato selezionato per andare a lavorare per un periodo su una di queste installazioni. La decisione non può essere revocata e i coniugi devono conviverci. Per ammortizzare la separazione forzata, a Hen verrà affiancata una copia biomeccanica esatta del marito.
Il tema del doppio e dell’androide è dopotutto un topos prediletto della fantascienza intimista e terminale. Non è certo qualcosa di nuovo, in tempi recenti lo hanno approcciato da Black Mirror a Ex Machina, fino a Il canto del cigno su AppleTV+. Il nemico schiva però da subito e il più possibile le tante domande di carattere scientifico, burocratico ed etico alle quali un’implicazione del genere mette di fronte. L’intento del film di Davis è d’altronde ben chiaro: usare l’annichilimento della condizione umana per fare cassa di risonanza su una relazione logora e ombra di se stessa.
E Il nemico dovrebbe essere allora un film tutto d’attori. In fondo ne ha solo tre in scena e due di questi sono tra i più quotati della propria generazione. Ma accantonando in un angolo la grande discussione sul tema – che arriva solo in una scena madre verso il finale, scontata ma almeno dal forte impatto –, non si riconosce mai davvero una struttura drammaturgica che lasci questi interpreti liberi di connettersi l’uno all’altro. Si avverte sempre una certa disparità tra azione e risposta nei momenti più teneri che si rifanno al melò, così come in quelli più tesi e angoscianti che invece guardano al thriller psicologico e allo psicotico. Quasi che fossero collaudati male, imbrigliati troppo rigidamente in un netto posizionamento dei ruoli che anche quando dovrebbe nascondersi o porsi a sottotesto, si dichiara in realtà facile da intuire e da smascherare.
Allora il simbolismo, reiterato dalla terra infertile e dall’albero innaffiato da Hen con fatica di braccia e d’anima, si rivela polvere pesante al respiro, esposizione a grana grossa in un’opera non aiutata nemmeno dalla sua durata piuttosto eccessiva (un’ora e cinquanta). Si resta freddi e a distanza dal cuore di un film che nonostante le calure e gli ammiccamenti al desiderio, con i corpi velati di sudore e coperti da indumenti sottili, resta infine fatalmente algido e respingente.