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Alessio Zuccari
RoFF18 | Il ragazzo e l'airone, recensione del film di Hayao Miyazaki
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Il ragazzo e l’airone potrebbe essere il commiato di Hayao Miyazaki al cinema. Se ne era già allontanato una volta, nel 2013, a ridosso della promozione del precedente Si alza il vento. L’insoddisfazione di non essere riuscito a lavorare come immaginava su un cortometraggio l’ha però poi spinto a un’ulteriore incursione nella regia cinematografica.
E nonostante siano passati dieci anni dall’uscita della sua ultima pellicola, per il grande maestro dell’animazione giapponese pare non sia trascorso nemmeno un giorno. Nell’opera liberamente adattata dal romanzo How Do You Live? di Genzaburō Yoshino (di cui mantiene il titolo nella versione giapponese), non manca davvero nulla di quella che è la sua poetica. La fanciullezza come cardine e come lente attraverso la quale filtrare il bello e il brutto del mondo; l’immaginazione e la fantasia presi a veicoli con cui planare tra gioie e dolori; il femminile e le donne fondamentali nel processo di avvicinamento al domani.
Il ragazzo e l’airone, presentato in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma 2023, si apre sul brivido della devastazione. È il 1943 ed imperversa la guerra tra Giappone e Stati Uniti. Il dodicenne Mahito abita a Tokyo con il padre, mentre la madre è ricoverata in ospedale. Ma una notte la struttura prende fuoco e lei resta uccisa. Sono solo i pochi minuti iniziali di un prologo che si inabissa tra le strade di una città nelle quali il film evoca gli spettri del conflitto. Sirene, caos, grida. Fiamme dappertutto. Le persone sono una massa confusa, poco più che ombre che proiettano con una vertigine la poca distanza di tempo che separa dal tremendo esito della guerra, l’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki.
Da questo orrore suggerito Miyazaki si allontana presto. Un anno dopo il padre di Mahito si risposa con Natsuko, la sorella minore della precedente moglie, e decide di trasferire la famiglia nella tenuta di campagna della nuova compagna. Come spesso accade nel cinema del regista, nell’angolo di tranquillità immerso nel verde si nasconde qualcosa di misterioso e fuori dal normale – ricordate Il mio vicino Totoro? Sono un’antica torre affondata tra la vegetazione del bosco vicino alla casa e un airone cinerino parlante e un po’ ficcanaso. È quest’ultimo a istigare Mahito nell’esplorazione delle rovine, promettendo di fargli da Virgilio e che qui, da qualche parte, avrà modo di riabbracciare la propria madre.
Il ragazzo e l’airone, fatto tutto di passaggi, varchi e porte che affacciano sempre su una realtà altra si fa Alice nel paese delle meraviglie. Il viaggio in cui Mahito viene trascinato fa scoprire anche a Miyazaki una sorta di multiverso: c’è un mondo del tutto parallelo rispetto a quello della quotidianità, collocato su un altro piano dell’esistenza e governato da un antico signore che afferma di aver viaggiato in lungo e in largo nello spaziotempo. Nell’abbracciare questa grande pulsione della contemporaneità, il film del cineasta ottantaduenne non perde mai un briciolo della sua filosofia più pura.
Ci sono personaggi singolari e pittoreschi che altro non sono che proiezioni alternative dei corrispettivi del mondo da cui proviene Mahito. Così come ci sono regni e regnanti del tutto differenti – ma forse nemmeno così tanto – da come li possiamo immaginare noi (non guarderete mai più allo stesso modo un parrocchetto), assieme a leggi naturali che funzionano seguendo le loro imperscrutabili ragioni. C’è, soprattutto, l’elaborazione degli strascichi di un lutto per avviarsi ad accettare una nuova genitorialità e quindi un nuovo orizzonte.
E colpisce, sempre, l’ostinata maniera in cui Miyazaki vuole concepire la possibilità di un altrove dove si può incidere in positivo sul corso degli eventi, dove ci si può ferire con dolori che lasciano cicatrici ma anche curare con i gesti, le azioni, la volontà. Lo racconta e lo incornicia con un lavoro sulle immagini che non conosce il senso della parola “insignificante”, dove ogni singola inquadratura è un quadro pennellato con cura ed energia, inanellata poi una dopo l’altra a formare un inossidabile duetto di sacro e profano.
Che pienezza, Il ragazzo e l’airone. A suo modo raccoglie il timone di un’eredità di cui si possono scorgere qui e lì le rifrazioni, portando gloria a una lavorazione durata oltre cinque anni e che per l’occasione ha portato anche alla riapertura dello Studio Ghibli. Un ennesimo rintocco nella carriera ricca e sconfinata di un autore che non ha mai smesso di parlare al fanciullo seduto dentro al cuore, polo nord di una bussola che punta sempre in direzione del futuro e della sua importanza.