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Jacopo Iovannitti

Beau ha paura, recensione del film con Joaquin Phoenix

Tags: ari aster, beau ha paura, i wonder pictures, Joaquin Phoenix
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Beau ha paura, recensione del film con Joaquin Phoenix

Tags: ari aster, beau ha paura, i wonder pictures, Joaquin Phoenix

BEAU HA PAURA, il nuovo film di Ari Aster, regista di Hereditary e Midsommar, è ora al cinema grazie a I Wonder Pictures

GUARDA IL TRAILER DI BEAU HA PAURA

Dal 27 aprile, in tutte le sale italiane grazie a I Wonder Pictures, arriva Beau ha paura, il nuovo film di Ari Aster, regista visionario che si è fatto conoscere con Hereditary (al Sundance Film Festival nel 2018) e Midsommar (tra i 10 migliori film indipendenti del 2019).

Il cast, capitanato dal premio Oscar® Joaquin Phoenix, è formato da Nathan Lane, Amy Ryan e Patti LuPone.

LA TRAMA DI BEAU HA PAURA

La storia segue le avventure del pavido Beau, un uomo introverso e facile preda di ansie e ossessioni che si appresta a mettersi in viaggio per far visita a sua madre. Tuttavia, alla vigilia della partenza, di fronte a lui esplode il caos. Incapace di giungere a destinazione in un mondo completamente impazzito, Beau percorrerà strade che non si trovano su alcuna mappa e sarà costretto ad affrontare tutte le paure e le bugie di una vita.

Beau ha paura
Foto: I Wonder Pictures

LA RECENSIONE DI BEAU HA PAURA

Quando Ari Aster era uno studente dell’American Film Institute, realizzò un cortometraggio dal titolo “Beau”. Durava sei minuti, era interpretato da Billy Mayo e narrava la storia di un uomo che, in procinto di partire, vede sparire dalla serratura della porta di casa le sue chiavi, mentre era rientrato per recuperare un oggetto che aveva dimenticato.

Questo è esattamente l’incipit che ci fa conoscere la versione di Beau di Joaquin Phoenix in Beau ha paura, la casella di inizio di un lungo viaggio che parte dalla nascita, traumatica tra urla e cadute e terminerà con una (o più?) morti. Tre grandi sequenze, quasi come fossero tre episodi di una serie, tre livelli di un surreale videogioco, tre mondi diversi da esplorare per raggiungere il proprio obiettivo, rapiscono lo spettatore per tre lunghe ore. Troppe? Possibile: sia perché non ci si è più abituati, sia perché Beau ha paura è un film complesso. Ogni inquadratura va analizzata, ispezionata, ammirata, capita. Persino Martin Scorsese lo ha fatto tornando a vederlo in sala per ben due volte.

Per decifrare Beau ha paura si potrebbe parlare di Freud e della sua psicoanalisi – anche solo tramite i concetti più spiccioli e superficiali, come il primo compagno di sala ha commentato una volta terminato il film. Ci si potrebbe trovare la filmografia di David Lynch tra simbolismi, l’assoluta libertà di espressione del bene, del male e dell’assurdo. Ma potremmo ritrovarci anche in un viaggio introspettivo nella mente di uno dei protagonisti congeniati da Charlie Kaufman.

E Joaquin Phoenix?

In questo mondo costruito sulle paure e le angosce, sull’assurdo e il surrealismo, sull’onirico e l’inquietudine, Joaquin Phoenix è l’eroe che deve lottare contro tutti e tutto. Ogni angolo del mondo di Beau ha paura potrebbe nascondere un colpo di scena o un momento di respiro, ogni persona potrebbe essere un grande aiuto o un avversario astuto. Non c’è modo di capirlo. Le espressioni, il modo di camminare, correre e urlare o restare in silenzio, studiatissimi dall’attore, sono ammirevoli. A tratti ci si potrebbe rivedere nel Beau di Phoenix, a tratti, invece, si vorrebbe fuggire e provare a essere il più distanti possibili da lui sia fisicamente che psicologicamente. Ma è impossibile. Certo è che si vuol capire questo lungo viaggio, questa odissea adrenalinica e visionaria, dove terminerà. Che sia un luogo fisico, che sia nella mente del protagonista stessa, tra ricordi, alterazioni del presente e ansia del futuro, il fil rouge non può che essere uno dei cliché della psicoanalisi subito citata. Ma è proprio questo filo che renderà più accattivante che mai il finale di un film che, vista la durata, in più momenti pecca di ritmo.

In conclusione…

I traumi della vita, i traumi familiari ma anche i traumi sessuali. Se Hereditary portava isteria e inefficienze e Midsommar viveva nella paura del proprio passato, in Bea ha paura c’è tutto questo e più. Di non facile comprensione, di lunga durata, è quanto più di complicato da apprezzare ma quanto di più necessario per il cinema, arte maestra nel mettere in scena l’onirico, l’assurdo, nel unirlo alla realtà, nel rendere tutto quasi credibile. Nel create un mondo utopistico, forse non troppo distante da quanto viviamo, forse che temiamo o che ci piacerebbe vivere: teatrale, controllabile e dominato sessualmente dai propri istinti. C’è poco da reprimere, tanto da analizzare, scoprire, di cui aver paura (a volte anche ridendoci su). E forse è proprio questo che spaventa.

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