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Alessio Zuccari
Blue Beetle, la recensione del nuovo cinecomic DC
Tags: blue beetle, DC, Xolo Maridueña
«Batman è fascista, Blue Beetle ha senso dell’umorismo!». A un certo punto esordisce così uno degli eccentrici personaggi che popolano il nuovo cinecomic a marchio DC. La sua è una dichiarazione d’intenti: nell’attuale panorama del cinema supereroistico, Blue Beetle è infatti quello che prende posizione di minoranze e classe sociale nella maniera più netta, perché da lì il suo eroe viene e lì ha formato la propria sensibilità. Lo fa certo con ampia ironia e con ampio gioco, ma è sfrontato, fieramente a grana grossa, e questa è la precisa identità che si cuce addosso come un costume in calzamaglia.
E in virtù di questa identità che affetta in due Palmera City, la città dov’è ambientato il film divisa tra i ricchissimi quartieri high tech e i poverissimi sobborghi latini, Blue Beetle è una sorpresa che non avevamo visto arrivare. Ha influito di sicuro la recente polveriera alzatasi a seguito del terremoto in casa DC Studios, con la salita al potere del duo James Gunn – Peter Safran e la lenta, atroce, estenuante dipartita del DC Extended Universe. E quindi non avevamo visto cadere dal cielo questo oggetto non identificato, che un po’ sottovoce è stato slegato dal vecchio universo DC e ricollocato in quelle che saranno le future intenzioni creative di Gunn. Ora viene proprio da dire: menomale.
Perché Blue Beetle ha le idee davvero chiare sul cosa e come farlo. Lo si può da un certo punto di vista ragionare secondo le traiettorie di alleggerimento alle quali era chiamato il primo film Marvel dedicato ad Ant-Man, commedia più dichiarata, a tratti demenziale, con la capacità di avere un respiro meno grave rispetto ai suoi fratelli e sorelle. Blue Beetle assolve a questo scopo, seppure sotto un’ottica più contestuale volta a stemperare la pesantezza di un clima di forte disaffezione nei confronti dei progetti DC che sono scampoli di una linea editoriale appassita e fuori tempo massimo.
Soprattutto, Blue Beetle ha il compito di introdurre l’origin story del primo supereroe latino-americano dell’azienda di fumetti. È Jaime Reyes (Xolo Maridueña, la giovane star di Cobra Kai), che torna a Palmera City fresco di laurea al college e con quindi in testa il cappello e al collo fior di debiti. In famiglia le cose non vanno tanto meglio: il padre (Damián Alcázar) ha di recente avuto un infarto e la casa in cui vivono anche madre (Elpidia Carrillo), sorella (Belissa Escobedo), nonna (Adriana Barraza) e zio (George Lopez) sta per essere requisita a causa dei debiti. Nel tentativo di dare una mano, Jaime varca il Rubicone e approda nella scintillante Palmera City dei miliardari.
Qui entra in contatto con lo Scarabeo, biotecnologia aliena che si integra con il suo corpo – in una azzeccatissima sequenza mostruosa, fisicamente violenta, quasi orrorifica nella solida regia di Ángel Manuel Soto – e gli dona i poteri di un esoscheletro impenetrabile. Manco a dirlo, il manufatto è l’oggetto di interesse di Victoria Kord (una mefistofelica Susan Sarandon), a capo di un’azienda la cui ambizione è imbrigliarne il potere a scopo militare e disposta a tutto pur di riuscirci.
Ma «ora anche noi abbiamo un eroe e non solo calci in culo» commenta ancora lo stesso personaggio dell’apertura di questo articolo – che poi altri non è che l’efficace pendolino comico dello zio, e anche la riflessione sul futuro dell’integrazione corpo-macchina, individuo-tecnologia, è terreno di scontro tra basso e alto, tra chi è controllato e chi vuole controllare, tra il collettivo e l’individualismo. Insomma, tra gli ultimi e i primissimi.
La sceneggiatura di Gareth Dunnet-Alcocer contorna il discorso delineando i caratteri con un piglio sempre ironico e quasi macchiettistico, mettendo la giusta battuta in bocca al giusto personaggio al giusto momento in quello che è forse, tra i cinecomic recenti, il film di supereroi più ritmato sotto il profilo umoristico. Attorno ha poi una struttura tutta gadget, armature, gingilli e robottoni che rispondono a una dichiarata estetica visiva anni Ottanta, che non reinventa nulla sul piano dell’immaginario ma si integra bene con un’avventura che si prende sul serio a piccolissime dosi.
Blue Beetle è in fondo il coming of age di un nuovo supereroe che viene dal poco e che di quel poco conserva l’ironia sporca e grezza in piena linea d’onda con il gusto di Gunn, con ancora il corpo e le pulsioni di Jaime che sono più di una volta oggetto e motore di comicità, a partire proprio dalla famiglia che resta perno centrale. Questo consente al tutto di scrollarsi di dosso l’apparenza di essere qualcosa di più di ciò che in realtà un progetto del genere si può permettere di essere, schivando il peccato mortale sempre di Ant-Man, però del terzo e del suo respiro fuori dal torace.
Allo stesso tempo, a scrutarlo bene, questo Blue Beetle possiede in ultima battuta anche il germe di un piglio piuttosto incendiario, di un giudizio affatto conciliante nell’arrivare alla resa dei conti di un finale che non sconta niente a nessuno. Anzi, c’è un interessante e a suo modo rivoluzionario (letteralmente) agire sul risveglio della coscienza, che non vede l’eroe essere giudice e giuria della situazione, bensì colui che offre gli strumenti – a un indottrinato, a una vittima, al popolo – di prendere liberamente la propria scelta, anche se drastica. Qui sta la differenza con Batman. E cosa che, per un film che non abbiamo nemmeno visto arrivare, non è affatto poco.