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Alessio Zuccari
Echo: recensione della serie Marvel su Disney+
Tags: alaqua cox, disney+, echo, marvel studios
Nella vita di tutti i giorni, molte persone si sforzano a far valere un detto: anno nuovo, vita nuova. Il passato sta lì come una teca. Dai successi si prende il meglio, dai fallimenti si impara a non sbagliare ancora. Un detto che è però un po’ più complesso tentare di applicare a un colosso narrativo come lo è quello del Marvel Cinematic Universe, che nel 2023 ha conosciuto il suo anno horribilis. Bocciature dalla critica, disaffezione del pubblico e rumorosi flop al botteghino. È difficile applicarlo perché il processo creativo dei Marvel Studios vive di cicli ed aggiustare le cose in corsa non è impresa semplice. Allora non dovrebbe stupire troppo che Echo, decima serie TV del MCU e primo appuntamento del 2024 con un prodotto Marvel, non si sposti di un centimetro da tutto ciò che negli ultimi anni ha raffreddato gli animi anche dei fan più accaniti.
Scrittura poverissima, ritmi sempre fuori giro, effettistica visiva di second’ordine contraddistinguono lo spin-off dedicato al personaggio di Maya Lopez (Alaqua Cox) apparso per la prima volta in Hawkeye. Serie, quest’ultima, di cui di fatto Echo è uno spin-off volto ad approfondire principalmente due cose: il ritorno sulla scena del super-villain di quartiere Kingpin (Vincent D’Onofrio, anche lui già spuntato in Hawkeye) e la rappresentazione dei nativi americani. Di fatto, la sensazione che la serie creata da Marion Dayre per Disney+ restituisce è di non sapere mai che pesci andare a pigliare. Vuole fare tanto, troppo, e non ha il carisma giusto per tenere salde le briglie in mano.
Abbiamo visto i primi tre dei cinque episodi da cui è composta Echo e ci ha stupito l’atteggiamento schizofrenico con il quale la serie cerca di destreggiarsi tra le sue anime. Ricordiamo che Echo è stata promossa come uno show maturo, crudo, ricco d’azione e contenuto non adatto al classico target dei prodotti MCU. Ricordiamo anche che è il primo prodotto televisivo al quale è stato affibbiato il cappello di Marvel Spotlight, etichetta creata sul finire del 2023 per indicare le opere originali incentrate più sui singoli personaggi che sull’impatto generale dell’universo espanso. Insomma, un tentativo di rassicurare il nuovo pubblico dello streaming sulla possibilità di fruire questi show senza aver paura di perdersi nei meandri del quadro generale. E, di rimando, intercettare nuove tendenze, rappresentazioni e minoranze.
Dopotutto il personaggio di Maya Lopez assolve principalmente ad un compito. Smarcatasi in apparenza dal giogo di Kingpin nel finale di Hawkeye, Maya torna nella sua cittadina natale. Qui riprende contatto con le sue vecchie conoscenze e soprattutto riscopre le proprie radici che risalgono a un mito nativo ancestrale con, forse, implicazioni dal carattere mistico-magico. Ma la lunga mano di Kingpin continua a tessere le sue fila su Maya, di cui ci viene raccontato anche il passato alla corte (tutt’altro che minacciosa, a dirla tutta) del boss criminale. Si capisce subito che è molto materiale da gestire in soli cinque episodi. E nelle prime tre puntate si manifesta infatti l’inadeguatezza di Echo nel restituire adeguata dignità all’incrocio tra queste traiettorie.
Quella di Dayre innanzitutto non è una serie dura e cruda come ci volevano far credere. Si scialacqua per la maggior parte del tempo in momenti di alleggerimento umoristico fuori luogo e in confronti emotivi scialbi e anticlimatici, dove non bastano un paio di colpi esplosi o qualche sparuta scena d’azione per riequilibrare i piatti della bilancia. A maggior ragione se queste scene sono come la sequenza dell’assalto al treno nel secondo episodio, pensata, realizzata e girata con una sciatteria che rende chiaro il divario tra i progetti di prima e seconda fascia tra le serie TV originali Marvel – qualche settimana addietro si è conclusa la seconda stagione di Loki, distante anni luce sotto ogni aspetto creativo e tecnico.
Poi, cosa probabilmente più grave perché vero cuore del discorso, Echo non sa cosa farsene della sua rappresentazione. Utilizza un nutrito cast di nativi americani (oltre a Cox, Chaske Spencer, Tantoo Cardinal, Devery Jacobs, Graham Greene) e li sparpaglia in un racconto privo di mordente dove sono solo contesto, delle quinte utili alla rappresentazione di per sé e non alla rappresentazione in funzione del racconto. Il nesso tra identità etnico-culturale e abilità di Maya è evocato pigramente nell’utilizzo di flashback che viaggiano a ritroso nel tempo e che si decontestualizzano del tutto, per sfasamento di tono e di messa in scena. Per dire: il terzo episodio si apre in un bianco e nero in formato quadrato e didascalie che richiamano il cinema dei primissimi del Novecento. Perché? Chi può saperlo.
E da queste rigidità è contraddistinto tutto ciò che abbiamo avuto modo di vedere finora della serie. Compreso anche lo scarso tatto nel gestire i momenti di dialogo in lingua dei segni (Maya è sordomuta), scanditi in campi-controcampi rigidi e meccanici, con un perenne e pedante accompagnamento musicale di sottofondo (Dave Porter) volto a colmare, con ipocrisia, il timore del silenzio. Insomma, rivedere CODA, premio Oscar al Miglior film solo due anni fa.
Per rivedere Marvel, invece, dobbiamo metterci l’anima in pace ancora per un po’. Da queste parti si fatica ancora a intravedere la luce in fondo al tunnel. Chiaro, addossare eccessive responsabilità a Echo sarebbe ingeneroso: non spetta a lei risollevare le sorti della baracca. Eppure amareggia constatare come l’intrattenimento medio, da cuscinetto serale, sia sempre più spostato così inesorabilmente verso il basso.
Guarda il trailer italiano di Echo: