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Monkey Man: recensione dell'esordio alla regia di Dev Patel
Alessio Zuccari

Monkey Man: recensione dell'esordio alla regia di Dev Patel

Tags: dev patel, jordan peele, Monkey Man
Monkey Man: recensione dell'esordio alla regia di Dev Patel
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Alessio Zuccari

Monkey Man: recensione dell'esordio alla regia di Dev Patel

Tags: dev patel, jordan peele, Monkey Man

L’attore britannico arriva dietro la macchina da presa con un adrenalinico film action che si muove tra la cultura e le ingiustizie dell’India.

Dev Patel questo Monkey Man lo inseguiva da anni. Se ne inizia a parlare nel 2018, poi si ipotizza di cominciare a girare e arriva la pandemia a frenare il tutto. Quasi si pensa di interrompere addirittura il progetto, che invece il carrozzone riparte e finisce per completare le riprese nel 2021. Netflix si assicura quindi i diritti per distribuirlo in tutto il mondo, ma poi arriva Jordan Peele che lo vede e sentenzia: questo film deve andare in sala. Così il regista premio Oscar per Get Out lo acquista dal colosso dello streaming e lo fa arrivare dov’è oggi, passato in anteprima al South by Southwest di quest’anno e con il cappello sopra la testa di “John Wick a Mumbai”.

La trama di Monkey Man: una vendetta che parte da lontano

Monkey Man: recensione dell'esordio alla regia di Dev Patel
Photo Credits: Universal Pictures

E la tentazione di descrivere l’esordio dell’attore britannico in questa maniera è in effetti forte. Da quella grammatica action con cui la saga di John Wick ha già fatto scuola, rilocata in spazi spesso e volentieri chiusi, al neon, attraversati come si attraversano i livelli di un videogioco il novello regista ha di certo tratto esperienza. Non è un caso che John Wick venga citato esplicitamente. Eppure la parabola del suo Monkey Man, di cui Patel è anche protagonista con una performance fisica che non rinuncia a compiacersi un poco, ci dice altro.

Orfano di madre (del padre non si saprà mai nulla) sin dalla tenera età, Kid spende le sue sere indossando una maschera da scimmia e facendosi pestare su un ring dove è agnello sacrificale. Il suo ruolo è andare giù quando il presentatore-organizzatore Tiger (Sharlto Copley) gli dice di andare giù. Tra le corde c’è «un solo dio, la rupia indiana», e tutti rispondono a questo mantra. Anche lo stesso Kid, che però reinveste tutto in un obiettivo chiaro: ottenere vendetta sul gruppo di persone responsabile per la morte della madre.

Da qui si innesca una spirale di violenza che va anche oltre ciò per cui il protagonista è effettivamente preparato, costretto a sanguinare, ritirarsi e apprendere sotto la anche la tutela di Alpha (Vipin Sharma) e della sua comunità di hijras, termine con il quale in alcune parti dell’Asia meridionale ci si riferisce a persone transgender o transessuali. Allora, più che a John Wick e al suo Baba Yaga, si capisce che Patel pare guardare anche a Batman e ai suoi tormenti psico-sociali. Lo guarda nella motivazione che scatena la sua sete di vendetta, lo guarda nel racconto di formazione dell’antieroe (che a differenza dell’uomo pipistrello non rinnega e anzi cerca l’omicidio), lo guarda nell’elezione a paladino di un popolo oppresso dall’infiammarsi di una società marcia e corrotta.

Le tre teste dell’oppressione e un antieroe eletto a sgominarle

Monkey Man: recensione dell'esordio alla regia di Dev Patel
Photo Credits: Universal Pictures

Il tratto distintivo di Monkey Man è infatti quello di farsi un action fortemente impastato con una lettura critica dell’autorità, dove la testa del serpente che Kid vuole tagliare è tripartita nei fili che legano assieme politica, polizia e religione. Sullo sfondo del film si affaccia un affresco che poco a poco viene a prendersi spazio nel primo piano, in particolare con il capo della polizia Rana (Sikandar Kher) e il mefistofelico guru arricchito Baba Shakti (Makarand Deshpande), espressione bestiale di un conservatorismo da cui anche l’India non è esente. Bene è ricordare infatti che nel Paese è al potere da dieci anni Narendra Modi, esponente del Partito Popolare Indiano e primo ministro sotto il cui governo si sono accumulate nel tempo accuse di violenze, intolleranze e scarsa attenzione agli strati più poveri della società.

In questa formula che prende attivamente posizione e osserva le derive dell’attualità, Monkey Man ragiona dunque intessendo una maglia narrativa fatta tutta di contatti, scambi, favori, passaggi di mano e reti di solidarietà. Patel, solido prima in una prestazione di volto e di muscoli e poi in una regia chiaroscurale che non risparmia colpi, sfrutta il genere cinematografico per porsi anche come moto accusatorio delle ingiustizie (si mescolano anche alcuni inserti d’archivio), rivalsa delle minoranze (con una sfrenata scena che nel finale coinvolge le hijras) e bignami archetipico delle storture del potere contemporaneo.

Non che quello di Patel sia un lavoro esente dai peccati dell’opera prima, anzi. Si registrano in particolare alcuni problemi di tenuta della trama, che nella sceneggiatura firmata dal regista assieme a Paul Angunawela e John Collee, quando osservata da vicino, presenta qualche penzolamento narrativo di troppo. Così come sgomita anche la smania di fare un qualcosa dove ci sia dentro tanto e con tante sfumature, in un saliscendi tra sangue, ironia (in particolare con il personaggio di Pitobash) e un pizzico di sentimentalismo non sempre calibrato al millimetro. Ma quel che resta e surclassa i difetti è un’energia trascinante e mescolata alle specificità della mitologia induista, sopra la quale Patel si dimostra capace di non perdere mai la bussola. Anche quando Monkey Man sembra a rischio deragliamento, il film trova nei momenti di incertezza il trampolino per slanciare ancora più in alto il suo implacabile antieroe morale. Forse è già un piccolo cult.

Guarda il trailer italiano di Monkey Man:

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