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Alessio Zuccari
Orion e il Buio: recensione del film DreamWorks su Netflix
Tags: charlie kaufman, netflix, orion e il buio
Sono trascorsi vent’anni, cioè dai tempi di Se mi lasci ti cancello, dall’ultima volta che Charlie Kaufman rinunciava a mettersi dietro alla macchina da presa di un’opera da lui scritta. Curioso che ciò accada di nuovo con Orion e il Buio, film d’animazione prodotto dalla DreamWorks Animation e distribuito direttamente su Netflix, piattaforma con la quale Kaufman aveva collaborato per l’uscita del suo precedente lavoro, Sto pensando di finirla qui. A dirigere in quest’occasione c’è allora l’esordiente Sean Charmatz, alle prese con una storiella formativa che la sceneggiatura adatta a partire dall’omonimo libro per bambini di Emma Yarlett.
Protagonista è Orion (Jacob Tremblay), ragazzino molto intelligente e un po’ cinico che dall’esterno può sembrare come tutti gli altri, ma in realtà vive la sua vita corroso dai timori. Anzi, da quelle che ai suoi occhi assumono l’aspetto di vere e proprie fobie: dal parlare in pubblico al parlare alla compagna di classe per cui ha una leggera cotta, dal bullo alle api, passando per le paure più assurde che potrebbero riempire le pagine di un intero quaderno. Su tutte si erge però quella che proprio lo paralizza: l’arrivo del buio.
Fino a quando il buio, beh, non gli entra letteralmente in cameretta. Buio inteso come un corpo, una testa e una voce (quella di Paul Walter Hauser). Orion per poco non sviene, ma da qui si snocciola un’avventura da montagna russa, con Buio che lo porta con sé in un viaggio dove l’obiettivo è cercare di superare almeno qualcuna di queste fobie che paralizzano il bambino. Da Orion e il Buio vengono così introdotte anche le Entità della notte, una sorta di pantheon di cui fa parte anche Buio e formato da creature ancestrali che hanno il compito di regolare i ritmi della vita all’ombra della luce.
C’è chi si occupa del sonno (Natasia Demetriou), chi invece dell’insonnia (Nat Faxon), chi dei sogni (Angela Bassett), chi del silenzio (Aparna Nancherla) e chi del frastuono (Golda Rosheuvel). Un gruppo che ricorda non così da lontano le emozioni di Inside Out, pur essendone sostanzialmente il controcampo irrazionale. E nell’incontro al limite dell’onirico che Orion fa con tutti loro, scopre anche in qualche modo di poter interferire con il loro agire, di poter inconsciamente portare scompiglio sull’equilibrio delle cose regolato da un rigoroso alternarsi del mondo del giorno e mondo della notte.
È qui che la sceneggiatura di Kaufman lascia intravedere il modo in cui filtrino raggi dei suoi tipici racconti attorcigliati, affastellati con diversi ordini di senso sopra la stessa linea narrativa. Quella che sembra la storia fantastica di Orion, infatti, a un certo punto si contamina con altro. Si scopre che all’interno del film c’è qualcuno che in realtà questa storia la sta raccontando e assemblando pezzo per pezzo – a fare da narratore, in alcuni frangenti, il simpatico e azzeccato cameo vocale di Werner Herzog.
Senza svelare troppo, la trama di Orion e il Buio fa un balzo fuori dalla sua traiettoria e si ibrida con un discorso che vorrebbe farsi elogio dell’arte stessa del raccontare, intesa soprattutto come punto di raccordo intergenerazionale e familiare. Il problema di un’opera che comunque ha le sue giuste intuizioni (lo stile d’animazione sfumato nei contorni che la Mikros Animation cala sul mondo di cui Orion è timorato) e i suoi momenti di tenerezza, sta nel fatto che sceglie troppo tardi di voler indossare due paia distinte di scarpe.
La sensazione è che il tutto si ritrovi invece con due piedi dentro una sola quando il film tenta di conciliare l’anima più intima di un racconto dalle sfumature a tratti esistenziali con questo suo impulso metanarrativo prestato al didattico. Si resta, insomma, un po’ confusi sul come orientarsi in base a queste coordinate suggestive, ma anche non pienamente risolte.