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Alessio Zuccari
Strange Way of Life, recensione del cortometraggio di Pedro Almodóvar
Tags: ethan hawke, pedro almodovar, pedro pascal, strange way of life
In passato Pedro Almodóvar ha flirtato con l’idea di dirigere Brokeback Mountain. La proposta di adattare il romanzo di Annie Proulx passò sulla sua scrivania prima di finire su quella di Ang Lee, che alla fine si mise dietro la macchina da presa del film. Il regista spagnolo rifiutò perché insicuro alla prospettiva di debuttare in lingua inglese. Passano gli anni e si vede però che quel tarlo ha fatto poco a poco breccia, arrivando a scavare un piccolo tunnel che ha condotto fino a Strange Way of Life.
Non è un colossal, non è nemmeno una pellicola vera e propria, ma un cortometraggio dalla durata di mezz’ora scarsa. A dire il vero ha quasi l’aspetto di un fashion film, ovvero di un’opera di solito firmata da grandi autori e volta a promuovere l’immagine di un brand. Non è in tutto e per tutto il caso del nuovo lavoro del cineasta spagnolo, ma dietro alla produzione di Strange Way of Life – assieme a El Deseo, società dei fratelli Almodóvar – svettano il marchio di Yves Saint Laurent e il nome di Anthony Vaccarello, direttore creativo della maison che qui ha curato i costumi e si accredita anche come produttore esecutivo.
A fare il resto, ci sono le star. Ethan Hawke e Pedro Pascal, due tra i più gettonati, affascinanti e desiderati attori della loro generazione, negli ultimi anni al centro di un forte vortice di divismo – in particolare Pascal, che tra The Mandalorian e The Last of Us sta conoscendo la sua prima vera giovinezza hollywoodiana. Il cortometraggio è costruito su di loro. Due ex cowboy ed ex amanti che si ritrovano, dopo oltre due decenni vissuti a distanza uno dall’altro.
Jake (Hawke) è diventato sceriffo della piccola cittadina di Bitter Creek ed è alle prese con un caso spinoso, Silva (Pascal) ha messo su famiglia chissà dove. Quest’ultimo attraversa il deserto al trotto e torna a far visita al compagno di scorribande in gioventù, ma dietro all’apparente gioia di rivedersi c’è in realtà altro. Si celebra il riunirsi, eppure tra i due scorre un senso sepolto dell’irrisolto. Il passato non ha davvero chiuso tutti i conti e i due, non più giovani, restano appesi tra le voglie di una volta e l’asprezza – bitter – del presente.
Un limbo che Almodóvar tratteggia lavorando meno sul carnale e sulla fisicità che da lui conosciamo bene, bensì concentrandosi sui tanti primi piani, sulla chimica emotiva tra i due attori, sui loro gesti e sui contrasti tra ciò che devono essere e ciò che vorrebbero essere. Anche in un flashback del passato, dove in una cantina i due bevono vino e si avvinghiano l’uno all’altro, desiderosi di consumare il loro affetto ma bloccati nel tentativo dai pesanti cinturoni con pistola e proiettili che portano alla vita.
La natura non cinematografica del progetto, però, a un certo punto fa capolino e invade la scena. Restano alcuni tratti distintivi del regista, a partire dall’onnipresente alternanza cromatica tra rosso e verde, ma tutto Strange Way of Life è ammantato da un’aura western un po’ retrò e un po’ scialbetta. Visivamente è un lavoro abbastanza povero ed essenziale, che accarezza la fascinazione melò a cui Almodóvar strizza l’occhio, ma che si ritrova con una fotografia (José Luis Alcaine, storico collaboratore del regista) che in più di un frangente lavora in opposizione al sensuale.
Sensuale, come già detto, evocato più nelle parole e nella prossimità che nell’effettivo, quindi smorzato da una confezione non del tutto convincente, non del tutto adeguata a supportare il lavoro dei protagonisti. Si percepisce insomma la portata limitata – e promozionale – del progetto, dove le tensioni d’amore care ad Almodóvar emergono per pochi istanti e in pochi sguardi, mentre attorno a restare sono pallide palpitazioni.