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Alessio Zuccari
Talk to Me, la recensione del film horror di Danny e Michael Philippou
Tags: danny philippou, michael philippou, talk to me
Un film horror dovrebbe sempre avere qualcosa da dire. Non si intende solo dal punto di vista del meccanismo narrativo o della resa stilistica. Quelli contano, certo, e anzi sono i fattori che determinano il salto di qualità. Si intende piuttosto la capacità di farsi ricettacolo delle fobie, delle pulsioni, delle vertigini del mondo che ci circonda. Un film horror è lo strumento al quale si affida il compito di funzionalizzare nello spavento controllato – perché confinato dentro uno schermo che possiamo mettere in pausa, spegnere o da cui allontanarci – le storture con cui poi ci può capitare di avere a che fare.
Talk to Me qualcosa da dire ce l’ha. Gli si può imputare il fatto di dirlo in maniera sghemba, di legarlo a metafore un pelo grossolane e di acchiappare, infine, meno di quanto vorrebbe. Però ci prova, e questo tentativo ha fatto della pellicola australiana già un piccolo fenomeno capace di incassare al botteghino decine di milioni di dollari a fronte di un budget irrisorio inferiore ai cinque – dietro all’operazione c’è anche la Causeway Films, che produsse The Babadook.
Al centro del film c’è una mano – sinistra – di ceramica. Qualcuno ne alimenta la leggenda raccontando che al suo interno vi è l’arto mozzato e imbalsamato di una medium. È finita tra le grinfie di alcuni adolescenti che ne affermano le proprietà sovrannaturali: bisogna stringerla, pronunciare ad alta voce la frase “parla con me” ed ecco che si palesano gli spiriti dei morti rimasti bloccati in una terra di nessuno, in un limbo tormentato. I più temerari proseguono con “ti lascio entrare” ed ecco che lo spirito può prendere possesso di chi l’ha invocato. È realtà? È finzione?
Se lo domanda la diciassettenne Mia (Sophia Wilde), alle prese con il secondo anniversario dalla scomparsa della madre e che scorre compulsiva sull’homepage dei social dove brevi video di queste possessioni sono diventati virali. Ecco la prima traiettoria che Talk to Me traccia in maniera abbastanza evidente. Tira un filo diretto tra la pervasività dei nuovi medium che tutto mostrano e il progressivo svilimento del mostrato, che perde di senso, è sciupato. Anzi: desacralizzato. Si arriva anche all’umiliazione vera e propria, a un totale scollamento nei confronti dell’esperienza stessa, compattata e formattata nell’arco di “stories” da novanta secondi – la durata massima consentita a queste possessioni indotte, che i ragazzi cronometrano – utili alla condivisione, all’effetto wow.
Da qui il film scritto da Bill Hinzman e Danny Philippou rincara la dose e prova a ragionare anche sul senso dell’assuefazione, su una dipendenza da questa viralità che assume i contorni e le paranoie della tossicodipendenza. Come si distorce la percezione del mondo che si ha attorno? Magari si iniziano ad avere delle visioni, magari non ci si può fidare di ciò che si vede, che è la grande paura di questi nostri tempi moderni. E quindi, ancora: cos’è realtà, cosa finzione? Talk to Me, diretto da Philippou assieme al fratello Michael (all’esordio cinematografico e con il quale forma un noto duo di youtuber australiano), su questa metafora esponenziale inizia però ad affastellare più di quanto possa ordinare con chiarezza.
Quello dei due fratelli è un film comunque composto, non esce mai di carreggiata. Allo stesso tempo pecca un poco di lucidità quando tenta di districarsi nel groviglio delle sue intriganti riflessioni, dove a un certo punto le speculazioni si accavallano e in parte cannibalizzano a vicenda. Forse è anche per questo che Talk to Me non è nemmeno così spaventoso come ci si poteva attendere.
Per somatizzare i suoi brividi interiori ricorre alle situazioni note del genere: lo spiritismo, le apparizioni orripilanti, la violenza che esplode incontrollata. Il film sembra intercettare tutto quanto con ottime intuizioni, ma a causa della necessità del far convivere più spunti e anche più movimenti narrativi non si spinge fino in fondo nel buio. E ad alcune di queste ottime intuizioni corrispondono a dire il vero anche ottimi momenti, come quelli che segnano l’ultimissima porzione dell’opera dove lo scollamento dalla realtà culmina in un finale davvero azzeccato.
Talk to Me lascia per strada qualcosa, questo è indubbio. Suggerisce alcuni sbocchi e poi magari li abbandona, perdendo in alcuni frangenti anche alcuni picchi sotto il profilo del ritmo. Ciò che più conta sta però nel fatto che non appare mai come un film vuoto. Non è un giro a zonzo, non è esercizio puerile, ma prova ad ancorarsi e a dialogare con il presente anche a fronte delle sue imperfezioni. Si può fare di più, ma non è male come trampolino dal quale slanciarsi.