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Alessio Zuccari
Asteroid City: recensione del nuovo film di Wes Anderson
Tags: asteroid city, festival di cannes, wes anderson
La domanda che viene spontanea è: ma Wes Anderson s’è perso? O meglio: Wes Anderson ha perso la voglia, l’energia, la verve di raccontare storie e personaggi vitali? Perché il suo cinema, incasellato nel corso degli anni in un sempre più raffinato rigore formalistico, la vitalità ce l’aveva eccome. Dopotutto è sempre stato un cinema di pulsioni emotive sgangherate ma intensissime. Un cinema di famiglie ampie, allargate, perse e ritrovate dove Anderson ha immaginato il racconto di sentimenti sbilenchi eppure umanissimi, spesso sensuali se non erotici.
Allora cos’è successo ad Anderson? Quando arriva ad un film come Asteroid City, planato in una distesa desertica del 1955 dove ci sono solo qualche cactus e un grande cratere in mezzo al nulla, cosa ci sta dicendo? Forse sta mettendo in scena un’aridità da cui si sente tratto in stallo? Forse sì. Dopotutto la stessa Asteroid City non è altro che una messinscena nella messinscena. È un’opera TV che un geniale sceneggiatore fatica a partorire (Edward Norton), mentre un altrettanto brillante regista (Adrien Brody) ne immagina non senza pena l’approdo sul palcoscenico.
Nel mezzo si aggroviglia la solita nutrita schiera di attori su attori – Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Tilda Swinton, Bryan Cranston, Liev Schreiber, Maya Hawke, Steve Carell, eccetera eccetera, nell’oramai riconoscibile marchio di fabbrica che vuole in ogni film di Anderson un plotone di volti noti. Su molti di questi è proiettata la dualità interprete/personaggio che riflette con doppia traccia i temi caldi del cinema di Anderson, come lo spaesamento esistenziale, il patema d’animo, la ricerca di un angolo di felicità, la ricerca anche di un’anima affine.
Ma sempre più con difficoltà, sempre più con distacco si delineano i caratteri di questi personaggi svuotati d’anima, ricalcati sulle sagome archetipiche di coloro che li hanno preceduti. Non viene incontro nemmeno la dualità che si è detta, poiché stabilisce un ulteriore divario nell’approfondimento degli attori fuori dal palco – un po’ più interessanti – e attori sul palco – abbozzati al minimo sindacale, in un contesto corale già ampiamente diluito tra chi dovrebbe essere protagonista e chi il comprimario. In questo dedalo si perdono coordinate e caratteri, si disperdono turbamenti e pulsioni e si fa vetrina, messa in mostra, teatro di burattini e di ombre.
Quando uno di questi attori lamenta al regista di non riuscire a comprendere le reali motivazioni del suo personaggio, lui gli risponde di continuare a recitare, di andare avanti. Come a dire, a dirsi da solo: lo so. E allora lui, Anderson, va avanti per una strada che in qualche modo, forse, pensiamo e speriamo, manifesta il germe di una consapevolezza arrivata al bivio. Resiste ferrea la presa sullo strumento registico, sul fascino dell’inquadratura riconoscibile, della firma spendibile commercialmente, alla quale ora si associa un insistente balbettio narrativo.
Per Anderson, però, le storie sono sempre state e, immaginiamo, sono ancora fondamentali. Basti pensare a The French Dispatch, sua penultima opera, che non solo per i più scettici già presentava una certa esasperazione, un certo horror vacui che in fondo c’è. Ma a ben vedere, quel film era anche atto di fede e quasi di resistenza nei confronti proprio del valore delle storie, della loro moltiplicazione e divulgazione sul grande schermo del cinema.
Allora, accettando come risposta un sì alla domanda con cui si apriva l’articolo, resta dunque da chiedersi se sia a questo punto sufficiente la plausibile presa di coscienza per andare a giustificare il buco nero di Asteroid City. Se sia, insomma, ancora sensato raccontare in questo modo, con questi risultati ma ancor di più con questi intenti, un sopraggiunto vuoto artistico, o sia meglio attendere, fare un respiro, ricalibrare e concedere un riposo. A lui, a noi e alle storie da ritrovare.