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Cristiana Puntoriero
Flamin’ Hot: recensione del film su Disney+ di Eva Longoria
Tags: disney, film, Recensione
La trama di Flamin’ Hot:
Richard Montanez, figlio di immigrati messicani, lavorava alla Frito Lay quando gli venne l’idea dei Flamin’ Hot Cheetos. La sua creazione, ispirata ai sapori della sua comunità, rivitalizzò Frito Lay e diede una svolta all’industria alimentare.
Com’è strano vedere un film su un protagonista partito da zero e arrivato ai piani alti di qualche azienda multimilionaria, in un momento storico in cui il lavoro (anche solo trovarlo, figuriamoci arricchirsene) è una completa (dis)illusione.
È strano perché Flamin’ Hot, il film d’esordio dell’attrice Eva Longoria, su Disney+ dal 9 giungo, ci presenta la storia tipica del self-made man sudamericano dalle umilissime origini contadine, destinato a vivacchiare come può tra gang, pregiudizi e riformatorio, che ha scelto poi di mettere la testa a posto iniziando a lavorare come addetto alle pulizie, diventando manager di quella stessa azienda dopo un’intuizione straordinaria, e nel farlo ci ricorda come ormai questi tipi di parabole meritocratiche da sogno americano siano sempre più un ricordo sbiadito del boom economico degli anni ottanta.
La vicenda di Richard Montañez (interpretato da Jesse Garcia), l’inventore delle patatine piccanti più vendute al mondo Flamin’ Hot Cheetos, narrata prima nel libro A Boy, a Burrito and a Cookie: From Janitor to Executive, poi trasposto dal film della Longoria, è difatti un esemplare tipo di alcune avventure umane che hanno forgiato l’immaginario comune delle grandi occasioni che può donare l’America, ricostruita in un biopic che, non prendendo mai una posizione, non fa torto a nessuno: onora il sistema capitalista statunitense che dopotutto è il padre fondatore e protettore di un circuito lavorativo che ripaga sempre l’abdicazione e l’onestà, e rende vivo l’orgoglio latinos (a proposito, leggete la nostra recensione di With Love 2) degli ultimi, dipingendo un protagonista e una comunità intera di seconde e terze generazioni donando loro aspetti sempre bonari, da eroi incompresi della nostra società da iniziare a guardare sotto una luce diversa.
Una mancanza di coraggio e di visione sulla questione working class e su quella dei lationos che rende Flamin’ Hot un film estremamente retorico e poco realista, che si limita a rimontare la storia di Montañez, prima operaio poi Direttore del Marketing multiculturale, aggiustando il tiro nelle sue parti più spigolose, dolorose e amare, preferendo l’approccio candido da comfort-movie che invece di avere il sapore deciso e audace delle chips super piccanti al centro della storia, lascia più la sgradevolezza di uno zucchero filato che si scioglie troppo velocemente in bocca.
A contribuire alla tiepida reazione di un film come questo, c’è soprattutto la dubbia scelta di un voiceover iper-presente che con il suo affollarsi sulle immagini sembra ostacolare la conoscenza e l’avvicinamento dei personaggi principali (Richard e sua moglie) con lo spettatore, e una discreta costruzione registica ed estetica che cerca il richiamo agli spot pubblicitari di quegli anni risultando tuttavia anonima e non particolarmente vivace.