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Martina Barone
Greta Gerwig, storia di un'autrice indie che con Barbie ha parlato a tutti
Tags: barbie, greta gerwig, ryan gosling
Che brava Greta Gerwig. Ora, ha fatto i soldi. E anche di questo bisogna essere fieri. È la donna col maggiore incasso in apertura per un film dell’intera storia della settima arte. Nessuna regista ha guadagnato come lei nel primo weekend (337 milioni di dollari), e visto che non sappiamo quando potrà ricapitare, ce la teniamo ben stretta. Il percorso che l’ha contraddistinta, almeno fino a Barbie, è stato quello dell’indie.
È stata “giovani donne sull’orlo di una crisi di nervi” molte volte, ma, in verità, le sue nevrosi non sono mai state troppo tese. Erano più ingenue, genuine, trasognanti. Un po’ come, ci piace pensare, sia anche lei. In fondo, in Frances Ha, l’abbiamo conosciuta – e forse tante e tanti si sono ri-conosciuti. Nonostante la sua carriera fosse già iniziata anni prima, è stato quell’incontro in bianco e nero a cambiarle (e cambiarci) la vita. Un po’ come ha rifatto ora Barbie. Per lei. Per noi.
Con Lady Bird, Gerwig ha dato il via alla sua carriera da regista, portando quel suo sentimento – perché, nel suo modo di recitare, un sentimento c’è, è presente – e lo ha reso messinscena, direzione e inquadrature per la storia di un’adolescente che voleva solo piacere (alla mamma soprattutto) e piacersi. Un coming of age al limite, ancora “indipendente” nel tono, ma già orientato al “grande pubblico”.
Quello che intercetta con Piccole donne del 2019 anni dopo, passando alla seconda regia che le avvale una nomination agli Oscar per la rivisitazione del classico letterario di Louisa May Alcott. Sempre lo stesso racconto, mai stato così diverso. Un confine sottile tra introspezione e intrattenimento, che fa della pellicola un adattamento tanto apprezzabile ai fruitori del cinema più sofisticato, quanto a chi, diciamolo chiaramente, voleva solo vedere Florence Pugh e Timothée Chalamet insieme.
Con Barbie, dunque, la trasformazione è definitiva. Arriva il cinema commerciale. Quello che sì, è anche per bambini. E se vi dicessimo che proprio questa è la sua magia? Ciò di cui è esempio Barbie, grazie alla scrittura di una mano come quella di Gerwig col compagno, professionale e di vita, Noah Baumbach, è che è possibile scrivere film per il vasto pubblico senza scadere nella piattezza. Senza doversi limitare a opere insignificanti, come spesso capita di incontrarne.
Il valore simbolico del contenuto dell’opera è frutto del desiderio da parte degli autori di veicolare un messaggio, facendolo nell’accezione più fruibile possibile. È sventolare la bandiera del femminismo in una confezione colorata, luccicante, glitterata. È dire: questo film è femminista e, per dimostrarlo, basta mostrare che la vita di una donna non è quella di una bambola. Utilizzando il linguaggio più limpido e cristallino.
Per coloro che tacciano Barbie di una sconcertante bassezza di scrittura, per chi crede che accusarlo di infantilismo equivalga a screditare il lavoro della regista e sceneggiatrice – dimenticando molto spesso che sì, c’è anche un uomo alla stesura del film – ha colto l’esatto punto della pellicola. Soltanto non avendolo capito. Barbie è semplice. Barbie è essenziale. Barbie è per lo spettatore più grande e lo spettatore più piccolo.
È Greta Gerwig che ha dimostrato di saper gestire una macchina milionaria – per una produzione come Warner Bros. – e cogliere esattamente il centro: disarmare per la chiarezza del testo filmico. Rallegrando, giocando, non venendo meno al principio primo del cinema d’intrattenimento, ovvero stupire e far svagare. Quale maniera migliore per far comprendere il faro di Barbie. E quale maniera più machiavellicamente rosea (in tutti i sensi) se non rispondere a chi lo definisce un film elementare: sì, è vero, lo è, perché bisogna tornare alle basi, quelle del saper educare e, insieme, farlo sapendo divertire.