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Alessio Zuccari
Venezia 80 | Ferrari: recensione del film di Michael Mann
Tags: adam driver, ferrari, Penelope Cruz
Ferrari è un film funereo. È un film popolato da corpi che vivono in prossimità della morte e della decomposizione, circondati da fantasmi. Ci sono fantasmi dietro e ci sono fantasmi davanti. È evidente sin dal momento in cui Laura Ferrari (Penélope Cruz) va in visita sulla tomba del figlio deceduto l’anno precedente, nel 1956. Davanti a lei c’è la lapide di Alfredo Dino Ferrari, appunto il figlio scomparso ad appena 24 anni a causa di una malattia degenerativa. Ma dietro le sue spalle c’è un’altra lapide, di un altro Alfredo Dino, il fratello dell’Enzo Ferrari di Adam Driver, anch’esso morto giovanissimo durante la Prima Guerra Mondiale.
Fantasmi ovunque, che sono un monito e un presagio, che incastrano nel mezzo i limbici personaggi che popolano l’opera con cui Michael Mann torna alla regia dopo quasi dieci anni – l’ultima volta era stata con il sottovalutato Blackhat. Fantasmi che infestano il mondo dei vivi e li trascinano poco a poco nell’aldilà. Come accade con i piloti che Enzo mette alla guida delle sue monoposto da corsa (tra cui Gabriel Leone, Jack O’Connell, Patrick Dempsey), nell’assennata ricerca del miglior tempo possibile in pista e della vittoria delle Mille Miglia. Come accade, se ci si riflette, anche con lo stesso Enzo, fantasma che nei primi istanti di film è protagonista di alcune immagini di repertorio “impossibili” mentre è alla guida della sua macchina, perché è l’Enzo con le fattezze di Driver e perché sono girate con inquadrature non realizzabili nei primi anni del Novecento.
E in seno a questo tono plumbeo si articola l’adattamento di Troy Kennedy Martin della biografia Enzo Ferrari: The Man and the Machine di Brock Yates, resoconto del tormento matrimoniale e professionale in casa Ferrari dopo la prematura e dolorosa dipartita dell’unico rampollo di casa. Affrontiamo, però, subito una delle questioni più spinose del film. Ovvero la scelta di fare il ritratto di un personaggio così iconico nella cultura d’Italia utilizzando star internazionali, andando a lavorare quindi con una mescola linguistica dove si alterna in continuazione l’utilizzo dell’inglese (in primo piano) e dell’italiano (che resta in certo intercalare e sulle chiacchiere di sfondo).
I precedenti recenti non facevano ben sperare, perché House of Gucci (curiosamente sempre con Driver tra i protagonisti) riusciva a distinguersi solo nel momento in cui, anche a causa di questa mistura di linguaggio, sfiorava l’autoparodia. Ferrari scansa quel pericolo, fosse solo perché si carica di un pathos emotivo del tutto differente, ma non riesce comunque a evitare l’inevitabile, ovvero di creare una continua dissonanza tra resa e percezione. E non è un tipo di dissonanza in questo contesto utile a qualificare il portato narrativo, a dichiarare e descrivere lo scollamento dalla vita dei suoi protagonisti. È un tipo di dissonanza che distrae, che trascina via spesso, per piccoli momenti, da un film che prova a mettere a fuoco la perdita totale dell’orizzonte di un uomo e di una donna così allontanati dalla vita.
Al netto della questione linguistica – che lo è, una questione – Ferrari offusca lo sguardo soprattutto di Enzo, che nei primi piani strettissimi che Mann sceglie di dedicargli lavora proprio con la messa a fuoco di ciò che lo circonda. Ferrari ci dice insomma che Enzo ha perso la prospettiva, la linea di un futuro spezzato nel momento in cui è stata spezzata la possibilità stessa di una dinastia, di un’eredità da tramandare.
E qui sopra alimenta anche l’ambiguità di un uomo che rimane nella condizione irrisolvibile di un lutto da portare avanti in una casa e di una nuova speranza da accarezzare in un’altra, in quella villa dove Enzo scalda il letto dell’amante Lina Lardi (Shailene Woodley) e dove c’è un figlio non riconosciuto ad attenderlo, Piero. Ma il velo cinereo che ammanta il film di Mann è probabilmente più affascinante della struttura che avvolge, suddivisa per tre quarti in un racconto teso tra le beghe di un matrimonio che cola a picco e un assetto finanziario della casa automobilistica da risanare del tutto, mentre nell’ultimo frangente lascia spazio alla corsa delle Mille Miglia.
Non c’è, però, una reale prossimità al dolore di questi personaggi, chiusi nella freddezza logica di Enzo e nell’insofferenza sclerotica di Laura – il nuovo carattere artistico al quale Cruz si è oramai accostata. Si galleggia sulla superficie della loro flebile esistenza, così come in realtà non si è nemmeno troppo affascinati dall’avvicinamento alla gara – ma non è un film sportivo, nonostante un paio di depistaggi, e quindi non si recrimina.
La resa complessiva, in poche parole, è meno solida della suggestione di fondo, complici anche alcune imperfezioni tecniche come un montaggio sbavato in alcuni frangenti (Pietro Scalia) e un accompagnamento sonoro (Daniel Pemberton) in più di un’occasione pedante. E questa commistione di fattori sul lungo corso penalizza la visione di Mann, che rimane appesa nel mezzo e tormentata un po’ come accade per le anime di cui ci voleva raccontare.