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Alessio Zuccari
Venezia80 | The Wonderful Story of Henry Sugar: recensione del film di Wes Anderson
Tags: ben kingsley, benedict cumberbatch, dev patel, ralph fiennes, venezia80, wes anderson
Eccola. Ecco quella che potrebbe essere la formula utile a Wes Anderson per riattraversare le proprie ossessioni e pulsioni scopiche. Ecco che con The Wonderful Story of Henry Sugar il regista arriva a condensare le sue oramai tipiche linee direttrici nel cortometraggio (se si preferisce, mediometraggio), opera dalla durata di quaranta minuti scarsi che adatta a schermo uno dei racconti più noti di Roald Dahl.
La sinossi è presto detta: un uomo ricco (Benedict Cumberbatch) senza particolari ambizioni e senza particolari talenti viene a conoscenza dell’esistenza di un guru (Ben Kingsley) capace di vedere senza usare gli occhi. Attratto dall’idea di imparare a padroneggiare questa esotica tecnica, si adopera giorno e notte per scoprirne i segreti e quindi poterli poi sfruttare per vincere al gioco d’azzardo.
Su questo raccontino agile e simpatico come si confà ai desideri narrativi sempre più minimali della sua ultima produzione cinematografica (Asteroid City, ma un certo germe era già nel più riuscito The French Dispatch), Anderson articola una meta narrazione che è congegno ludico palese e manifesto. È infatti interessante soffermarsi ad osservare soprattutto come il cineasta appaia sempre più affascinato dall’idea non solo di un racconto compresso, ridotto ai minimi termini in quanto a progressione e dilatazione narrativa, quanto piuttosto dallo svelamento stesso dell’artificio narrativo, delle sue logiche e delle sue strutture.
Quindi questo The Wonderful Story of Henry Sugar si stratifica sui piani del narratore primo, Dahl (Ralph Fiennes), dei medici del guru (Dev Patel e Richard Ayoade), del guru stesso e quindi del milionario. Un lavoro sui piani del racconto che non è solo nella finzione del racconto, bensì anche nel marchingegno della messinscena, esplicita e palesata nel passaggio teatrale tra una scenetta e l’altra, con cambio di quinte, di palco, di sfondi che avviene sotto gli occhi dello spettatore.
Una rotazione di senso suggerita già da Asteroid City, dove tuttavia lo slittamento manteneva una certa qual forma di continuità narrativa tra la performance e la preparazione alla performance. Qui Anderson scompone il tutto in quadranti quasi in risposta all’accettazione – e alle accuse di fan e detrattori – di un suo sempre più progressivo interessamento più alla forma che alla sostanza emotiva delle sue storie, rovesciando il banco e palesandosi. E c’è da dire che l’operazione funziona, che questo colpo di mantello è quantomeno utile a rileggere la produzione recente del regista, a mettere un segnalino nel suo percorso artistico e comprendere, a partire da qui, le sue intenzioni future.
Unitamente al fatto che ripaga anche la volontà di destreggiarsi con il minutaggio più contenuto di un cortometraggio, che non rischia quindi di disperdere verve ed estro di questo gradevole raccontino nei meandri di quella forma in cui il rischio di cannibalizzare tutto è sempre concreto. The Wonderful Story of Henry Sugar è un passaggio intrigante nella storia professionale di Wes Anderson, ci serviva e ci servirà, ce lo teniamo e lo apprezziamo senza boccheggiare in cerca d’aria nelle sue geometrie prospettiche